FUGGI DA FOGGIA NON PER FOGGIA MA PER I FOGGIANI ...

lunedì 20 settembre 2010

CAPITOLO I

Diventato rivoluzionario il movimento italiano, rimasto ovunque riformista insino al 1848, doveva esso divampare finalmente da un momento all'altro presso di noi, senza che il Borbone potesse più arginarlo, costretto invece, suo malgrado, di far buon viso a cattivo giuoco. E fin dal dodici gennaio di quell'anno, data ormai impressa a caratteri d'oro negli annali napoletani. Nella cui sera , al teatro San Carlo, si videro lanciare da un palchetto di sesta fila un colombo ed alcuni uccellini con nastri tricolori al collo, tra gli evviva e i battimani del pubblico,Ferdinando II, impettito innanzi al parapetto del palchettone reale, abbozzando sulle labbra un sorriso, ch'era invece contrazione di sdegno e di dispetto, ben ebbe a comprendere che l'assolutismo della sua casa trovavasi alle supreme ore. Sollevata quindi Palermo,il Cilento in fiamme, caduto a Napoli e scacciato il Del Carretto,ridonatosi al partito di azione dell'epoca il vero naturale duce nella persona di Carlo Poerio, allora allora uscito dalle prigioni, presentatasi finalmente,con una dimostrazione imponente di popolo, la nota petizione al re per ottenere una forma di governo costituzionale rappresentativo, Ferdinando,preso da brividi di paura, dovè cedere di fronte all'incalzante torrente, e, dimettendo il vecchio Ministero,mostrò di atteggiarsi, senza alcun preavviso, a sensi generosi di libertà, e di soddisfare così il voto dei popoli, salvo a far rivivere i perfidi infingimenti del suo degno avolo, e a ricacciare nel nulla, con l'astuzia e con la violenza, le concessioni strappategli.
In quel torno di tempo giaceva in grembo a grave iattura la nostra Foggia: - tra due grandi malanni essa si dibatteva tuttodì: la miseria e l'epidemia del grippe. Le piogge copiose,che da mesi non avevano fatto mai sosta, le forti nevicate e il freddo intensissimo quasi avean distrutto in taluni siti,specialmente verso l'Ofanto, le innumerevoli e pingui carovane delle pecore, che rappresentavano, oltre all'agricoltura, la più importante industria dei naturali del luogo, i quali perciò, ben potevano dire di sé con frase biblica: Agricultores et pastores ovium sumus, et nos et patres nostri. Non vi era momento quindi, in cui non si deplorasse un disastro or per l'uno o per l'altro di quei proprietarii, messi così tra l'uscio ed il muro, senza sapere a qual santo o a qual demone votarsi in cerca di uno scampo. E, per soprassello, si era scatenata su tutto il Tavoliere un'infezione di grippe in forma si violenta e micidiale, che la maggior parte dei colpiti, sieno vecchi, sieno giovani,sieno fanciulli, era presto,in soli tre giorni, spacciata e messa in viaggio per Acheronte. Fra tanto avvilimento, si morale che materiale, a nulla il governo aveva mai pensato per venire in aiuto specialmente della nostra città, ridotta in si dure condizioni, nulla aveva fatto per lenirne le piaghe, tranne che l'irrisoria concessione o meglio l'elemosina di un meschino ribasso sul presso del sale, che,da grana dodici per ogni rotolo, veniva ridotto a grana otto. Ecco il grande, il munificente atto paterno dei governanti,….nemici, in realtà, dei propri governati. Pure in mezzo a così gravi pubbliche contingenze, un'estesa azione rivoluzionaria alimentatasi nell'ombra chè animi frementi di amor patrio, stanchi di più tollerare l'asfissiante servaggio, potevano contarsi a mille a mille in quella terra, ardente del bacio più fervido del sole, e, segretamente affratellati coi liberali delle altre città del regno, non aspettavano altro che il segnale per irrompere come un sol uomo ad annientare il dispotismo e a piantare sui ruderi l'albero della libertà, Ed essi appartevansi ad ogni gradazione sociale, perché, con savio consiglio, coloro che avevano una certa superiorità sugli altri o per intelletto o per averi ovvero per nascita erano riusciti a guadagnare alla buona causa grande parte degli umili. Fu per questo che il 21 gennaio 1848, vistisi apparire - come avveniva di consueto - su per le cantonate della città,dei proclami incendiarii, inneggianti alla indipendenza ed alla riforma italiana.alla rivoluzione ed a quel Pio IX, che, dopo aver benedetta l'Italia, la mandò a farsi benedire, furono arrestati un venditore di commestibili ed un caffettiere, di cui duolmi ignorare i nomi, sospettati entrambi di complicità nelle clandestine affissioni.
Imperava a quell'epoca sulla provincia di Capitanata, quale intendente, il cav. Domenico Antonio Patroni, un accorto funzionario nativo di Foggia, il quale, come tutte le autorità del tempo, ostentava, un po' troppo, purità di costumi e soggezioni alle leggi non solo della morale, ma della Chiesa, due cose che servir doveano di falsariga agli amministrati, educati così ad adottare, quali che fossero le loro convinzioni, metodi addirittura da sepulcra dealbata, come van detti gli iporiti dalla sacra Scrittura. Il parere insomma consideratasi più che l'essere, onde la qualità di baciapile stimavasi a priori garantia di rettitudine, nonché di pecorina obbedienza, senza che niuno venivasi poi preoccupando di ciò che veramente esistesse in chicchessia sotto la docile parvenza di santità.
Eppure i malevoli ebbero, per un momento assai fuggevole, a mormorare su d'una pretesa leggerezza o di un facile abbandono di lui, ripetendo quel quandoque bonus…..del Venosino, fors'anche a torto, perché egli dignitosamente riaffermava poi, senza frapporre tempo, la sua normale costante, inflessibile serietà di carattere e rigidezza di condotta. Trionfava, da parecchie sere, sulle scene di quel teatro Ferdinando, più che per la sua arte,perché recitava nel ruolo di terza donna, per la sua bellezza statuaria la signorina Olimpia Verlej, figlia naturale d'un marchese Palmieri, datasi all'arte del canto per rovesci finanziarii. Il Patroni se ne innamorò, e le male lingue cantarono allora,in mille toni, di aver vista la bella Verlej insediata clandestinamente nelle più intime stanze del palazzo dell'intendenza anche prima che si chiamasse Olimpia Patroni. Perché l'intendente il ventiquattro di gennaio, la sposò sì col rito religioso che col civile, e, sposandola fece il becco alle gracchianti oche.
Chiudendo, quindi, la breve parentesi, è d'uopo dire che il Patroni con ogni mezzo vegliava affinché l'ordine pubblico non fosse turbato dagli spiriti accesi e, pur facendo le viste di non preoccuparsene, non li perdeva d'occhio un istante solo.
Anzi dovette talvolta secondare, senza frapporre ostacoli, ogni movimento popolare, specialmente quando, emessosi il decreto che poneva la stampa sotto la sola dipendenza del Ministero della pubblica istruzione, condarsi piena facoltà di pubblicare scritti su qualunque tema e di stampare periodici politici mercè la semplice restrizione di una cauzione, ed emessosi altresì il decreto di indulto per gli arrestati politici, ne giunse in Foggia, col corriere del dì appresso, la lieta novella
Nella lunga flagranza delle rivoluzioni ogni fuoco fatuo pare un sole, ogni meteora un alba, ma, innanzi a codesti due fatti ,l'entusiasmo dei foggiani non poteva, invero, non uscire dall'orbita e spezzare ogni freno, scorgendosi in essi i prodromi di un avvenire, ch'era la realizzazione di un sogno, indarno fino allora carezzato. Tolto dalle labbra il nottolino, la parola libera, limpida e pura come acqua sgorgante dalla fonte, ridiventata la vera rivelatrice del pensiero - concessa la facoltà di poter discutere direttamente della cosa pubblica, delle questioni vitali del paese e dei propri diritti, non poteva di fronte a tutto questo, che indicava di essersi pervenuti alla vigilia di un evo perfettamente nuovo, rimanersi indifferente, come non rimase, infatti ogni animo assetato di libertà, o meglio….di dignità umana. Avrebbe forse tuttavia nicchiato l'intendente, se uomini risoluti non avessero, da quel primo dì, mostrato che non vi era altro tempo da aspettare per aprirsi alle masse ignoranti senza più alcuna riserva o sottintesi. Cominciarono allora, per conseguenza, e continuarono indisturbate le pubbliche arringhe tribunizie; proclami su proclami impiastricciarono senza posa le mura delle case private e dei pubblici edifizi, opuscolo e fogli volanti, giorno e notte, fecero per sè gemere i torchi, come altresì un primo gazzettino locale si senti gridare per le vie dagli strilloni, la cui permissione quasi s'impose all'intendente da un Carmine Durante, da un Gaetano Tanzi e da un Luca Pece, da un Felice Patierno, e alla cui avanguardia, in verità assai battagliera, tenne dietro, dopo assai tempo, altro giornale costituzionale moderato, presosi a compilare dai fratelli Luigi e Achille Moltedo, col semplice intento di rendere comune al popolo le nuove idee politiche, e che assunse a titolo: Il Cittadino.
L'indulto, d'altra parte, che aveva, con Carlo Poerio, aperti i cancelli delle prigioni di Stato a parecchi altri atleti della libertà, aveva pure infranto i ceppi di un cittadino foggiano ,di Saverio Altamura, giovane artista, che dava bellamente a sperare di sé, e che dovea poscia addivenire fulgida gloria della pittura italiana, nonché vanto e decoro della nostra terra,. Questi, che noni avea commessa altra colpa, in quei tempi subdoli di paure e di sospetti, se non di aver gridato con gli altri " Viva Pio IX" frase simbolica di redenzione, si guadagnò dal tiranno, in premio del suo facile suggestionarsi….la galera. Seguiamone, intanto la narrazione fattane da lui stesso in quell'aureo libricino, cui mise nome di Vita e Arte, e che racchiude tutto un brano di storia intensa, vissuta, e interessante non poco per chi si pasce di ricordi:" Ero - egli scrive - per la prima volta in Roma. Un giorno, traversando Trastevere per far ritorno al mio Studio, che fiancheggiava quel gioiello di palazzo che è la Farnesina, udii due vassalli romani, che, discorrendo fra loro dicevano : toh sai ch'è morto er sor Gregorio? Codesto sor Gregorio era nientemeno che Papa Gregorio XVI. Lasciò questi fama di gran bevitore, sicchè corse allora per le vie di Roma un motto di Pasquino, che cioè, picchiando il detto papa alle porte del paradiso ed avendogli il portinaio San Pietro domandato del nome, ed avendolo egli declinato, il santo tornò a chiedergli se fosse Magno. Al che il nuovo venuto rispose: no son Gregorio Bevo. Tutti sanno che, dopo la morte del papa, i cardinali si chiudono in Quirinale per scegliere il successore, e la sera si va a vedere la fumata. Dopo qualche giorno si seppe che il nuovo papa era stato eletto, e si andò tutti, io con gli altri, ad acclamarlo. Lo si volle al balcone, e , dopo molto aspettare, si vide per le cento finestre del palazzo passare un lume, e finalmente si aprì il verone ed il nuovo papa salutò e benedisse. Fu allora che da quelle migliaia e migliaia di petti eruppe quel grido di "viva Pio IX, che per molti anni suonò in Italia grido di redenzione, di libertà e di indipendenza. Gridai con gli altri, e scagli la prima pietra chi non ha gridato in quell'epoca; Viva Pio IX.
L'eco di questo nome mi seguì in Napoli, dove feci ritorno;ed una sera, stando riuniti nel caffè de Angelis con Achille Vertunni, Diomede Marvasi, Camillo de Meis, Luigi La Vista, e ,raccontando io loro con giovanile calore i fatti di Roma, le speranze liberali, gli entusiasmi del popolo, inconsciamente eruppe lo stesso grido dai nostri petti ,e, ponendoci alla testa di una folla di popolo, percorremmo la via di Toledo fino alla reggia. Così fu ripetuto per molte sere, con la folla sempre più crescente, finchè la cosa non increbbe al re; ed una sera ci venne sbarrata la via presso il largo s.Ferdinando da truppe,uscite dal palazzo reale; si fecero varii arresti, ed io fui del bel numero uno.
Nel carcere di S. Maria Apparente, dove fui condotto, devotamente baciai i miei compagni di prigione, ch'erano Carlo Poerio, Maiano d'Ayala, il duca di Sandonato ed altri, e da essi e con essi cominciò il mio tirocinio politico. Alessandro Poerio, fratello di Carlo, e che poi morì combattendo a Venezia, nelle sue visite ci rinfocolava gli spiriti con le sue poesie, calde d'amor di patria e di speranze. Conobbi il quell'occasione il bravo generale Roberti, comandante il castello S:Elmo, e feci i ritratti di qualcuno dei miei compagni di carcere con la luce che si rompeva a quadrati sull'umido pavimento. Dopo qualche tempo uscimmo col trionfo dei nostri voti, avendo il re accordata la Costituzione ed indetta la guardia nazionale, nella quale mi arruolai. Passato il pericolo di essere arrestato gridando per le vie, lasciai gli altri gridare per chiudermi nello Studio e riprendere il mio lavoro."
La notizia di un tale indulto, dunque avea destato in Foggia del pari il più grande entusiasmo. Come a Napoli, dove,dopo il mezzodì del 27 gennaio, una folla delirante portava in trionfo gli scarcerati, messi su d'un carro, sormontato da un grosso gonfalone tricolore e preceduto dal nostro vecchio e venerando concittadino foggiano Saverio Barbarisi, altra fulgida stella del nostro firmamento rivoluzionario-politico, così in Foggia una calca brulicante, mettendo in non cale le sue attuali traversie economiche e sanitarie, e rianimandosi d'una novella vita, a guisa di un fiore che,con sollevare il reclinato capo dallo stelo, si riapre alla rugiada mattutina, invase le pubbliche vie con fremiti non mai visti, con clamori non mai uditi. E quasi come il pellegrinaggio, si conduce sotto i balconi della modesta casa ove nacque Saverio Altamura, in quella storica piazza Pozzo rotondo,che non già opera di uomo, ma semplice forza di tradizione ricorderà sempre da sé alle postume generazioni essere stata un tempo il gran cortile del palazzo imperiale degli Hohenstaufen, come ricorderà del pari che a quel pozzo, ergentesi in allora nel mezzo di esso, e che da poco vandalicamente andò spezzato fin nelle ultime vestigie, venivano i cavalieri, reduci dalle giostre e dai tornei, ad abbeverare i loro cavalli stanchi ed ansimanti. Quivi, tra l'unanime e vivissima commozione,s'improvvisarono quel dì concioni calde di fede e di amore, quivi s'intuonarono inni patriottici, quivi si gridò per la prima volta, con canne spalancate, da mille e mille ardenti: " viva la libertà ".
L'intendente Patroni, come ho già accennato, lasciò fare senza porre difficoltà e limitazioni di sorta:- certo la sua condotta veniva inspirata da una necessaria prudenza, figlia di ponderato calcolo, e non già perché si sentisse colpito dal raggio di luce sulla via di Damasco, condotta oh quanto dissimile da quella tenutasi dal generale Statella, governatore di Napoli, lo stesso dì in cui il carro trionfale degli escarcerati percorreva la via Toledo, quand'egli in mezzo ad una scorta di appena undici usseri a cavallo,non per paura ma per profondo sentimento, inibiva che la guardia civica e gli svizzeri si opponessero alla solenne manifestazione popolare, e che anzi offrivasi mediatore tra il popolo ed il re, accettando di presentare di sua mano a costui il voto della nazione.
Mutato poscia il vecchio Ministero in quello presieduto dal duca di Serracapriola, e di cui venne a far parte Francesco Paolo Bozzelli per l'interno,l'esultanza dei foggiani si tramutò in vero delirio, giacchè l'avvento a potere del manfredoniano Bozzelli, caldissimo patriota del 1820, rimasto in esilio per diciotto anni e incarcerato nel 1844, vecchio amico di Guglielmo Pepe, sino allora rimasto a capo del comitato dirigente rivoluzionario napoletano, si estimò come la migliore delle garentie per un regime lealmente liberale. Non sospettarono però gli illusi, come nol potette 1' universale, qual fedigrafo addivenisse costui e di quale azione nefanda e traditrice potesse un dì essere capace. Ma bene, invece, Ferdinando II, esperto nella conoscenza degli uomini, come nota Giorgio Weber, aveva intuita 1' ambizione, la superbia, 1' avidità di danaro, di cui era ricolmo l'animo di lui, e seppe soffiarvi "sopra e fecondare queste male passioni in guisa da convertirlo subitaneamente in docile istrumento di tirannide.
  Il giorno trentuno di gennaio, per ordine del Patroni, si vide affisso su per le cantonate della città il famoso Atto sovrano, datato da Napoli il ventinove dello stesso mese,  con cui  si concedeva la Costituzione, e puossi immaginare quale e quanta esultanza dovè questo suscitare negli animi di coloro che, vissuti per anni ed anni nelle più fitte ombre di un oscurantismo  senza nome, vedevano finalmente e salutavano  per la prima fiata, in ciascuna di quelle linee, l'irradiante luce benefattrice. Lo spettacolo, infatti, che dette Foggia, quel giorno, fu veramente nuovo nel suo genere, commovente e grottesco ad un tempo, perché non vi fu persona che, obliando ogni domestica cura ed ogni suo malanno, non fosse uscito, nell' abbigliamento in cui trovavasi, dalla propria casa o dal proprio stambugio per correre là, ove un sillabo novello e stupefaciente chiamava tutti a raccolta, e per restarvi le ore intere col muso per aria a leggere, a rileggere, a commentare, a benedire quei lunghi lenzuoli di carta, su cui, a caratteri cubitali, il generoso Atto sovrano era disteso.  Pareano tutti intontiti  all'annunzio improvviso della largita Costituzione; quasi non si credeva ai proprii sensi, e si domandavano perciò 1' un l'altro se fosse quella una realtà vera o fenomeno di luce ingan­natore. Essi non aveano però la vista di Linceo il torriere ; ma se pure l'avessero avuta, rammenteremmo che anche questi fu soggetto all'errore e scambiò la bellissima Elena col sole. I poveri illusi, i quali non aveano mai letto negli astri, né nel volo degli uccelli, né nelle fumanti viscere delle vittime, finirono per credere che fosse stata annunziata in buona fede ai popoli la novella aurora, e ne gioirono dall' imo del cuore,pur sapendo che niuno possa mai prevedere a questo mondo ciò che ne riserba il destino : unum scio, nos nihil scire. Se, intanto, erano in Foggia già quasi tutti scomparsi gli avanzi di quella schiera gloriosa, che, sotto il nome di Carbonari, avevano compiuta la rivoluzione del 1820, spazzati chi dalle persecuzioni di una polizia feroce, chi dalla falce del tempo inesorabile, per prender posto nelle eterne pagine della storia quale esempio di virilità alle future generazioni, pur rimaneva un buon nerbo di fautori di libertà, ben degni dei caduti avi. E contavasi ancora, fra i ruderi della vecchia Carboneria, il settuagenario Agnello Iacuzio fu Giacomo, anima ardentissima, che fu poi presidente del comitato rivoluzionario, e che sentivasi fremere ed agitare nelle vene lo spirito bollente del suo congiunto Francesco Paolo Iacuzio, di colui che fu gran maestro dell'Ordine carbonaro e acerrimo pugnace per la Costituzione del 1820, quando il tre di luglio issava in Foggia pel primo lo stendardo nazionale sulla piazza Porta-reale, e quando fu dappoi autorevole componente il Senato della Daunia riunita (1). Non gli erano da meno un Giovanni de Anellis, ex-funzionante primo assistente nella 12.a Vendita dei Carbonari, un Tommaso del Conte, già direttore dei pubblici granai; un Francesco Paolo Vitale, stigmatizzato nei foschi registri della polizia quale liberale pericolosissimo ; un Michele Ricca, vecchio carbonaro anch' egli, che fu educatore venerato di un'intera generazione al culto della libertà e della patria ; un Orazio Salerni, marchese di Rose, ormai settantenne, che nel 1779, di quattordici anni appena, propugnante le libere istituzioni insieme con suo padre, meritava da Casa Borbone una dura prigionia, e che, posteriormente, nel 1820, per avere spiegato in Foggia un drappo tricolore, venne condannato nel capo. E intorno ad essi si serravano come un sol fascio mille volontà risolute a sagrificare fin la vita pel trionfo di un' idea, quali Nicola Sanna, Cannine Du-
(1) Questa suprema magistratura, i di cui membri furono : Francesco Paolo Caseitti di Lucera, gran presidente, Graetano Rodino, grande oratore, Giuseppe Tortora, gran segretario, Nicola Barone, gran finanziere, Francesco Paolo Iacuzio, gran guardabollo e suggello, pubblicò il dì 6 loglio 1820 il suo primo proclama con riconoscere Ferdinando I sovrano e capo della nazione napoletana, e con sospendere la leva, nonché con ridurre alla metà il peso fondiario, il costo del sale e delle carte da giuoco, i diritti e i dazii sulle dogane della provincia, come anche sul tabacco, lasciando di quest' ultimo libertà a chiunque di farne commercio.
Villani — Cronistoria di Poggia 
rante, Saverio Mucelli, Pietro de Piato, Orazio Sorge, Antonio Festa, Ferdinando Cipri, Nicola Mancini, Tommaso Tonti, Fer-dinando de Chiara, Gaetano Tanzi, Antonio Caso, Luigi de Noia, Felice Patierno, Luca Pece, Scipione Cafarelli, Saverio Tarantino, Francesco Severo, Giacomo de Maria, Vincenzo Barba-risi, Antonio Carelli, Gaetano e Giovanni Battista Postiglione, Domenicantonio Berardi, Raffaele Mirasole, il falegname Vincenzo Russo, il maniscalco Paolo Annecchino e tanti altri generosi, che man mano avremo occasione di ricordare lungo il corso di questa cronistoria. Ma qui non tralascerò di additare altresì, in ispecial modo, un Vincenzo Petrilli e, più di lui, sua moglie Paola Cassetta, sarta e modista, che fu accanitamente passionata di libere idee. Costei, nelle ore di ricreazione o di riposo, non si stancava di educare le menti delle giovanette, sue operaie, all' amore della libertà, e queste, alla loro volta, 1' ascoltavano con attenzione e si sentivano trasportare dalla sua parola fervente in un orizzonte nuovo e paradisiaco. 
Tutti, tutt' insieme, dunque, costoro intorno al venerando Agnello Iacuzio si videro allora riuniti, con gli occhi imperlati di lagrime, al largo Portareale, ora piazza XX settembre, e si baciavano e si abbracciavano quasi fuori di sé stessi, dimenticando in un momento, nella piena dell'improvviso gaudio, le passate sciagure, i passati martirii, le cui immagini si diradavano e si dissolvevano come le dense nebbie della valle sotto la diffusa vampa del sole. E la folla, ebra anch' essa di commozione, li circondava gridando « viva il re », senza che la grandezza di questa manifestazione di gioia fosse venuta a turbare neanche per un istante 1' ordine pubblico ; perche lo squadrone dei lancieri e la gendarmeria, già sotto le armi, pattugliarono a cavallo  e  a piedi   tutto il giorno per pura  forma.   Organizzatosi quindi un imponente corteo con simiglianti condottieri, si chiese e si ottenne che il sindaco, marchese Luigi de Luca, andasse ad invitare l'intendente, perché in loro compagnia si fosse condotto nella Basilica per intonarvi il Te Deum. A mezzogiorno, infatti, nel nostro maggior tempio, che ci regalò Guglielmo il Buono su di una cripta di Roberto Guiscardo, si videro affratellati ricchi e poveri, nobili e plebei, uomini di lettere e analfabeti, e, tra l'intendente, 
Consiglio d'intendenza, il sindaco, il conciliatore, gli eletti della città, si notavano perfino gì' infimi ed i più ignoti cittadini. Solo brillarono per la loro assenza il comandante delle armi della provincia coi suoi ufflziali per difetto di ordini superiori, nonché l' intero Capitolo ecclesiastico, che disparve addirittura, senza avere avuto neppure il coraggio di mentire un qualsivoglia pretesto. Il che, forse, induceva posteriormente l'intendente a trasmettere al Ministero l'inesatta notizia intorno ali' impressione prodottasi in Foggia dalla largita Costituzione, col dire ch' essa era stata accolta con freddezza, che la maggior parte dei cittadini ne avea poco gioito e se n'era anzi addimostrata indifferente. L' abate Antonio Russo, capo-sagrestano del Capitolo, fu il solo ch'ebbe il coraggio di rimanersi in chiesa a rappresentare i fuggiaschi colleghi, e fu quindi colui che, vestitosi dei paramenti festivi, intonava il Te Deum, e impartiva la benedizione tra il suono delle campane e le salve dei mortai. Dopo di che le autorità, circondate sempre da una folla plaudente e precedute da una banda musicale, fecero ritorno, a piedi, al palazzo dell'intendenza, ove si sciolsero. La sera vi fu gala al teatro con triplicata illuminazione, mentre in città splendevano di luminarie i palazzi del capo della provincia e del primo magistrato civico.  Venne quindi dal re promulgato lo Statuto costituzionale, fatica speciale del Bozzelli, che lo redigeva sulla falsariga dello Statuto francese, peggiorandolo. Stampato quindi e pubblicato l'importante documento su fogli volanti, come del pari nelle colonne del giornale ufficiale del regno, lo si vide,il quattordici di febbraio, tra mano di quanti foggiani sapessero leggere, abbandonandosi essi, in capannelli, ai più svariati commenti. Venne improvvisata sul momento altra pubblica dimostrazione, che riempì la città intera di evviva al re e alla Costituzione, e si prese, intanto, accordo tra un comitato e le autorità di festeggiare pubblicamente il lieto evento. L' apposita e scelta deputazione di gentiluomini del paese (1), coadiuvata anche dai parroci, prese a girare per la città, invitando ognuno a dare un obolo a tale scopo, obolo che oltrepassò nella misura le generali previsioni, e che lasciò un margine ben pingue di duecentocinquanta ducati per soccorrere i poveri.

(!) La suddetta deputazione venne composta del sindaco, presidente, e dei signori marchese Tommaso Antonio Celentano, Francesco Buonfiglio, Pietro de Luca, marchese Saverio Celentano, Giovanni Battista Postiglione e marchese Luigi do Luca.

conseguenza, la città per tre giorni interi festeggiò il lieto evento con dimostrazioni popolari, con concerti di bande musicali, con Te Deum in chiesa e relativo sermone del vescovo Antonio Maria Monforte dei duchi di Lautrito, tolto per forza dal popolo alla sua dimora, nonché con maritaggi a donzelle povere, con veglione e gala al teatro, e fin con un carro trionfale, tirato a mano, recante l'immagine del re dall'aureola di un angelo argenteo in atto di annunziare al popolo la Costituzione, carro, circondato da un pugno simpatico di gentiluomini con ceri accesi, e che clamavano commossi al grande e generoso atto, quali Giambattista Postiglione, Domenicantonio Berardi, Raffaele de Chiara, Federico e Giambattista del Conte. E mentre Michele Ricca, 1' eloquente avvocato e patriota, saliva, in una di quelle piazze, su di una panca per spiegare alle masse la Costituzione, a teatro Michele Achille Bianchi — un giovane ardente, letterato e poeta, che un dì corse anch' egli, spronato da Cristina Trivulzio, contessa di Belgioioso, calda partigiana di libertà, a combattere su'campi lombardi contro l'Austria e a redimirsi di gloria (1) — mandava in visibilio il pubblico con una sua Cantata patriottica, rivestita di note dal maestro Giuseppe Romano, nonché con altre sue poesie inspirate e fiammanti, ch' egli stesso porse, declamando dal palcoscenico, con un entusiasmo, di cui non si vide mai 1' uguale. 
Ebbero fine così il sedici di febbraio le pubbliche dimostrazioni di gioia nella città di Foggia (2), non scarsa, come vedemmo, di uomini dalla schietta fede liberale, di vecchio stampo, cui si aggiunse uno stuolo di giovani baldi e ardimentosi, quali Luigi Ricca, Vincenzo Luigi Bacillo, Francesco de Filippis, Antonio de Maria, Michele Albanese, Salvatore Modula, Giovanni Surdi, i quali, chi più chi meno, diventarono dei popolari tribuni in quei giorni di comune esultanza, per spiegare anch' essi ai minimi, sulle piazze, i beneflcii incommensurabili dell' Atto sovrano, che veniva a rialzare i destini delle Due Sicilie. Imitarono  essi, in tal modo, l'esempio 

(1)  Col Bianchi vi andarono altri due giovani foggiani, Francesco de Filippis e Antonio Carelli, quale ultimo conquistava in battaglia il grado di alfiere.
2)  Intorno a questo periodo il signor Luigi Moltedo licenziò per le stampe un opuscolo dal titolo : Relazione storica delle pubbliche feste, celebrate in Foggia nei giorni li, 15 e 16 febbraio 1848 per la Costituzione conceduta ai suoi popoli dal re Ferdinando II°,— Foggia, tip. Fratelli Russo, 1848. 


già dato dal canuto avvocato Michele Ricca, sul cui capo eran passate tutte le sventure di un'epoca luttuosa. Le pubbliche dimostrazioni, avvenute ad ogni piè sospinto, gli archi di alloro e di ulivo, sospesi sulle vie come a trionfo, l'entusiasmo spontaneo e non mentito di quella folla che si vide brulicare specialmente il quindici febbraio sulla piazza della chiesa matrice, genuflessa al suolo innanzi alla spera, luminosa come un sole, racchiudente nella sua luce il corpo del Signore e innalzantesi dall' altare tra le mani del Pastore in segno di benedizione, mostrarono ad oltranza come seppe Foggia salutare il grande benefìcio avuto, come sentì potentemente l'impulso della libertà, scoppiato quasi fuoco etneo, e come ebbe la forza, ad un tempo, di soffocare nella memoria tutto un passato di menzogne, d'inganni, di umiliazioni e di sciagure. Non vi furono sugli occhi di tutti, lo vedemmo pur troppo, che lagrime di tenerezza, non vi furono sui labbri che accenti di laude e di plauso, non spuntarono nel cuore che gioie e speranze. In quelle dimostrazioni si ripercoteva l'eco di un primo grido di riforme civili e politiche, che fin dal 15 giugno 1846 si era già emesso dalle aule del Vaticano, inaugurandosi il pontificato di Pio IX,-grido, per quanto inaspettato, altrettanto spontaneo e generoso, e che fu estimato, in allora e dappoi, quale miracolo, che valse ad iniziare la indipendenza d'Italia. 

Che se qualcuno mostrò allora di non far buon viso alla novella forma di governo, ben fu punito e tosto dal furore del popolo. Un di costoro fu il sacerdote Gaetano Maldacea, vicario generale della diocesi di Troia e rettore del seminario foggiano. Uomo intelligente e di soda coltura, ma nemico di ogni progresso civile e attaccato al dispotismo come ostrica alla chiglia, non sapeva egli darsi pace, vedendoselo, ad un volger d' occhio, scappar di mano. Un retrogrado, dunque, della più beli' acqua come lui, non poteva certo sottrarsi ali' attenzione dei liberali ed al loro giusto risentimento. Nella sera del diciassette di febbraio, infatti, a tarda ora, un' onda di popolo, guidata da Luigi de Noia, dal nomignolo « il terlizzese », perché figlio d' un guardiano di Terlizzi, uno dei più bollenti di quell’ epoca, assalì la sede del seminario e ingiunse a colui di far fagotto, sotto pena della vita. AH' improvviso assedio ed alla tassativa intimazione, fattasi da mille gole come ruggito di fiera, il Maldaeea, preso da terrore, cercò uno scampo negli angoli più remoti del palazzo, dove, col viso e con lo sguardo di chi abbia in bocca le tanaglie del cavadenti, cominciò a biasciare rosarii e litanie. Di ciò avvisato sull' istante l’intendente, questi scaraventò addosso alla folla uno squadrone di lancieri a cavallo, che con una carica rapidissima, la sbaragliò d' ogni parte, vuotando, in men che noi dica, anche le vie adiacenti. Ed un picchetto di essi rimase tutta la notte a guardia del seminario per tema si volesse dalla folla ritentare l'assalto ; e così ebbe campo il Maldacea di saltarne via per prendere asilo presso il vescovo, suo autorevole protettore. Ciò suscitò un più grave fermento nella cittadinanza, che nell' atto del Maldacea, coadiuvato dal Monforte, scorse un' aperta ribellione alla sua volontà, e risolse quindi di metter mano flnanco alle armi, se la cavalleria continuasse a garentire l'insensato ribelle. Per lo che il colonnello Statella si presentò al vescovo Monforte e gli parlò risolutamente, facendogli comprendere che doveva senz' altro abbandonare al suo destino il Maldacea per evitare così un cruento conflitto tra la folla e la forza pubblica. Ma quegli, che non intendea distaccarsene, né, per la sua dignità, volea dar prova di sottomissione a chicchessia, preferì di minacciare fin di chiusura il seminario e fors'anche di totale abolizione, anzi che disserrare 1' uscio di casa e metterne fuori il suo protetto. Informato il sindaco di tale inconsulto proposito, si recò egli immantinente dal Monforte con parecchi decurioni per protestare contro la grave minaccia e per fargli comprendere altresì che la città non dovesse aspettarsi un tale sfregio dal suo vescovo, il quale, anzi che aizzare vieppiù la rivolta, doveva invece, in ogni guisa, cercare di sedarla. L'ardito monsignore continuò tuttavia a battersi con la rappresentanza civica senza cedere d' un passo ; ma, finalmente, vistosi tra muro e muro, non potè non abbandonare i futili pretesti di decoro e di convenienza fin qui accampati, e promise che il dì seguente avrebbe fatto allontanare da Foggia il Maldacea, pel quale richiese una scorta di sicurezza. Infatti, il trentuno di febbraio, a notte fonda, questi, accompagnato dal sindaco, dall' insigne dottor fisico Bartolomeo Baculo e da un drappello di guardie, partì per Napoli. 
 Ottenuta così ampia e completa soddisfazione, il popolo foggiano tornò presto alla sua calma abituale, nonché alla gioia dell' eccezionale e straordinario momento.

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