FUGGI DA FOGGIA NON PER FOGGIA MA PER I FOGGIANI ...

lunedì 20 settembre 2010

CAPITOLO II

 In così anormali condizioni, in cui trovava»! la nostra provincia di Capitanata, causa la cattiva interpetrazione data alla Costituzione, Foggia a ragione dovea temerne il contraccolpo ; per lo che i pacifici cittadini, ad ogni più lieve moto di piazza, correvano a rinchiudersi nel guscio delle proprie case, tremanti di paura per la vita e per gli averi.

Uno dei primi pensieri del governo, presieduto dal duca di Serracapriola, fu di provvedere ali' ordinamento della guardia nazionale, palladio di libertà pei cittadini nelle costituzioni politiche rappresentative. Sicché il dì 11 febbraio '48 perveniva in Foggia all' intendente una lettera-circolare del ministro dell'interno, con la quale, a formare una guardia provvisoria , furono date le istruzioni pel modo come in tutti i Comuni della provincia dovesse farsene gli elenchi, riducendosi anche a tale forma gl'istituti delle vecchie guardie urbane, che, in alcuni luoghi, trovavansi tuttavia in esercizio. I Decurionati presero ad occuparsi di tale lavoro col prescegliere all'uopo e proprietarii e professori di arti liberali e capi-operai ed uomini probi di qualunque condizione, tutti considerati ad una stregua, secondo i suggerimenti del governo. E perché gl'intendenti, per la disciplina di detta milizia provvisoria, erano stati altresì autorizzati a nominare un capo e dei sotto-capi, l'intendente Patroni nominava per Foggia a capo-guardia il signor Giuseppe dei marchesi Celentano, e, a sotto-capi, i signori Agnello Iacuzio, Michele Ricca, Francesco Sorge e Gaetano Postiglione. Facoltava egli, intanto, il sindaco di riunire il Decurionato per discutere, col suo intervento, della chiesta organizzazione. Perciò questo, il giorno dodici consecutivo, dopo rapida discussione, procedette, in presenza del Patroni, alla nomina di una Commissione di quattro decurioni, ai quali, sotto la presidenza del sindaco, fu affidato il mandato di compilare la lista di coloro, che, da' venticinque ai cinquant'anni (limitazione di età, che con posteriore circolare veniva modificata nel suo punto di partenza con estenderla ai diciotto anni) avrebbero dovuto far parte della guardia nazionale provvisoria, riserbandosene l'approvazione finale prima che fosse spedita all'intendente. Il lavoro venne in due sedute totalmente espletato; e, ratificatasi quindi la lista intera, da renderla esecutiva, si aprì per la prima volta il Corpo di guardia di sì fatta milizia in un fondaco sotto il palazzo Celentano alla strada Portareale, e presero ser-vizio, il primo giorno, ben cinquanta scelti cittadini, comandati dal signor Giuseppe Celentano. E già parecchie pattuglie se ne videro quel dì istesso in giro per le vie, avvicendandosi coi lancieri e coi gendarmi pel mantenimento dell'ordine pubblico.
Intanto Ferdinando TI, dopo di avere promulgato lo Statuto, volle, a tranquillare gli animi ancora titubanti dei suoi sudditi, giurare il ventiquattro di febbraio, nella chiesa di s. Francesco di Paola in Napoli, la sua fede sincera alla Costituzione, convinto che il popolo non potesse credergli sulla sua semplice parola, e che il giuramento e non la sua probità gli impedisse di tradire la verità per 1' avvenire. Quale meravigliosa fiducia in sé stesso !... Quanta onta alla propria onorabilità in quel giuramento !... E ordinò quindi che l'istesso dì, al1' uscita dal tempio, sull' ampio piazzale della reggia, le truppe alla loro volta, lui presente, avessero giurato di difenderla. Il che, avvenuto con ogni pompa, dovea ripetersi poi, successivamente, dagl' impiegati nei loro diversi ufficii, come da tutta la guarnigione del regno. 
Fu, perciò, che il ventotto febbraio a Foggia si riunirono, alle ore sette del mattino, al largo di Gesù e Maria, ora piazza Lanza, in tenuta di parata, la guardia nazionale, la gendarmeria reale e le guardie di onore di tutta la Capitanata, e quivi il colonnello Matteo d' Afflitto, comandante le armi della provincia, dopo aver letto loro ad alta voce il r. decreto del 17 febbraio, in cui era segnata la formola sacramentale dei giuramento, giurò egli pel primo, e quindi invitò a giurare tutti gli altri, i quali, portando la roano destra sull" arma e levandola poi in alto, esclamavano ad alta voce : « viva il re ». Giovanni de Anellis, nel frattempo, entusiasmò la folla, pronunciando un discorso eloquente e patriottico, col quale, senza alcuna riserva, sciolse un inno alla vittoria della rivoluzione sulla potestà regia. 
E mentre al largo Gesù e Maria si ponea termine a questa prima funzione, riunivansi, alle undici antimeridiane, al largo del Contapiano le truppe del presidio, i lancieri cioè e l'artiglieria, donde, sfilando bellamente a plotoni, pervennero in sulla spianate della villa. Quivi aspettava, con la guardia d' onore a cavallo, venuta per fare omaggio all' esercito, una gran folla di curiosi, assiepata a piedi, in carrozze, entro calessi, char-à-banes e rozzi carretti, su cui si vedevano, in rustiche e sgangherate sedie di paglia, intorno intorno seduti e uomini e donne e fanciulli, siccome usansi tuttavia da quei contadini in occasione di feste popolari e, normalmente, da' vignaiuoli del luogo, quando la domenica vanno alla città e se ne tornano in sul ve-spero alle vicine campagne. Messasi la cavalleria in linea e di fronte alla città, con l'artiglieria di fianco, il tenente-colonnello Ciocchi, al segnale dell' attenti, lesse con, enfasi la formula del giuramento, al che le truppe abbassarono armi e bandiere, e cia-scun soldato, sollevando la destra, gridò « viva il re », mentre l'artiglieria sparava a salve ventuno colpi di cannone. Fu notata però con sorpresa 1' assenza del colonnello cav. Statella, per essere stato il comando delle truppe assunto, in sua vece, dal Ciocchi. E si riuscì a sapere che quegli, con deliberato proposito, avea voluto esimersi dal prestare giuramento quel dì alla Costituzione, perché, qual siciliano, credeva pregiudicarsi rispetto agl' isolani, suoi compatrioti, i quali sino allora non avevano voluto riconoscerla. Fece atto così di solidarietà apprezzabilissima, ma, come militare in attività di servizio, avrebbe dovuto inchinarsi innanzi alle disposizioni regolamentari, che non eccettuavano alcuno dal giuramento. Sicché dopo due giorni — ed era da aspettarselo — lo Statella, con apposita ministeriale, venne destituito. 
L'intendente Domenico Antonio Patroni, intanto, sin dal ventuno di febbraio era stato, con sorpresa della cittadinanza, collocato a riposo, e nominavasi, in sua vece, il cav. Gaetano Coppola dei duchi di Ganzano. La partenza di lui per Napoli, ove andò a prendere dimora stabile con la sua giovane sposa, se spiaeque a parecchi foggiani, essendo il Patroni, come dicemmo, loro stimato concittadino, pure la universalità non ebbe occasione di accorgersi poi molto del mutamento avvenuto al palazzo della dogana, che consideravasi, come ovunque, una specie di san Graal inaccessibile, perché gl' intendenti dell' epoca, a differenza dei prefetti di oggidì, preferivano starsene, per sistema, lontani da contatti con famiglie locali, né aprivano mai gli usci dei loro palazzi a pranzi o a balli, credendo di rimanere, altrimenti, sminuiti in autorità e in prestigio. La loro figura quindi era rudemente poliziesca, anzi che amministrativa, essendo essi nelle provincie capi supremi della polizia e rappresentanti del re, con poteri sì assoluti da permettersi financo di compromettere chiunque e di perderlo a loro com­piacimento senza dar mai conto dei loro atti a chicchessia, tranne che a lui solo. Per lo che ogni intendente, doveva essere dalle moltitudini temuto....   null' altro che temuto. 
Partitosene il Patroni la notte del ventisei di febbraio, giunse il Coppola il ventotto seguente, alle cinque pomeridiane, in­contrato a poche miglie dalla città, in forma ufficiale, dal sin­daco, dal comandante le armi della provincia e dai consiglieri dell' intendenza, i quali, ad invito del primo, fecero del pari onore, nel simposio della sera al nuovo venuto. 
Ma mentre festeggiavasi V arrivo del Coppola al palazzo dell' intendenza, il vescovo Monforte, che non area perdonato ai foggiani F aver voluto strappargli violentemente dal fianco il suo fido vicario, e che cominciava nel contempo a temere anche per sé, si allontanò da Foggia in compagnia del suo medico dottor Vincenzo Raho, nonché del suo segretario can.co Luigi Ciavarella, facendo le viste di aver bisogno di curarsi da una risipola facciale, e partì alla volta di Napoli, ripa­rando a Portici. La curia rimase così completamente acefala, perché il Monforte non credette, pensatamente, di affidarla ad alcuno: che anzi t'acuito i parroci a fare tutto ciò che concernesse le proprie parrocchie, senza più controllo di autorità superiori. S'inaugurava in tal modo in tutta la diocesi, per volere dello stesso Pastore, scompigliato dalla bile e dalla paura, un' era di anarchia, di cui niuno poi, a dir vero, mostrò mai di preoccuparsi. 
Con decreto del 29 febbraio, a norma dell' art. 62 dello Statuto costituzionale, pubblicavasi la legge elettorale provviso­ria, mediante la quale si stabiliva procedersi alle elezioni politi­che per distretto. Assegnavasi per ogni quarantacinquemila abitanti un deputato che possedesse una rendita di dugentocinquanta ducati; e, con un concetto perfettamente misero e restrit­tivo, concede vasi il dritto del voto soltanto a coloro che aves­sero avuta una rendita di ventiquattro ducati, ai professori dell' Università e del collegio militare, ai membri ordinarii di tre r. Accademie, ai giudici, ai decurioni ed ai pubblici funzionarii a riposo, già regolarmente pensionati. Con altro decreto, in data dello stesso dì, veniva poi convocato il Parla­mento pel primo di maggio. 
Sicché a Foggia sin dal quattro di marzo ebbe a riunirsi il Decurionato non solo per la prestazione del rituale giura­mento, ma per occuparsi eziandio della nomina dei membri della giunta elettorale, la quale, sotto la presidenza del sin­daco, avrebbe dovuto formare le liste secondo la legge. A tale alto e delicato ufficio furono prescelti i signori Francesco Paolo Modula, Vincenzo Celentano, Domenico de Angelis e Giovanni Battista Postiglione, i cui nomi, resisi di ragion pubblica, produssero ottima impressione.
Il nuovo intendente, frattanto, che avea già preso possesso della carica, si recò lo stesso dì, in gran pompa, a prestar giu­ramento alla Costituzione nella chiesa matrice insieme con tutti gì' impiegati civili ed amministrativi; funzione solenne, che fin dall' alba era stata preannunziata alla città intera con petardi e scampanìo, da rompere in malo modo la testa ai dormienti. A causa, pelò, di un inopportuno cattivissimo tempo non potè formarsi un regolare corteo, sicché tutta la festa si circo­scrisse nell' interno del tempio, ove, concorrendo alla solen­nità 1' animo di tutt' i cittadini, forte vibrante il grande inno della commozione patriottica, la guardia nazionale, agli ordini del sotto-capo avv. Michele Ricca, rese gli onori delle armi alle autorità, recatesi colà in eleganti equipaggi, scortati da' lancieri.
Il Coppola prese posto nel presbiterio innanzi ad un tavolo, ricoperto da elegante tappeto orientale, e su cui trovavasi dischiuso il libro degli evangeli!, rilegato in marocchino rosso con borchie di argento. Rizzatosi poscia in piedi, ei ricevette tutti gl' impiegati convenuti alla cerimonia, leggendo la formola rituale e invitando ciascuno a poggiare la mano destra sul crocifisso, litografato sulla prima pagina del volume quivi dispiegato, e controsegnando con la propria firma il giuramento prestatosi. Venne quindi cantato il Te Deum, e, dopo la benedizione, impartitasi dall' altare maggiore, tra un non meno assordante suono di campane, la funzione  ebbe fine.
Anche al tribunale di commercio si tenne lo stesso giorno, in udienza, la solennità del giuramento ; ma quivi il giudice Agnello Iacuzio rifiutossi di giurare mercé la formola prescritta, estimandola tisica e insufficiente, per lo che venne sospeso dalle funzioni sin quando ottemperasse, con miglior consiglio, alle disposizioni di legge.
nanco di compromettere chiunque e di perderlo a loro com­piacimento senza dar mai conto dei loro atti a chicchessia, tranne che a lui solo. Per lo che ogni intendente, doveva essere dalle moltitudini temuto....   null' altro che temuto.
Partitosene il Patroni la notte del ventisei di febbraio, giunse il Coppola il ventotto seguente, alle cinque pomeridiane, in­contrato a poche miglie dalla città, in forma ufficiale, dal sin­daco, dal comandante le armi della provincia e dai consiglieri dell' intendenza, i quali, ad invito del primo, fecero del pari onore, nel simposio della sera al nuovo venuto.      
Ma mentre festeggiavasi V arrivo del Coppola al palazzo dell' intendenza, il vescovo Monforte, che non area perdonato ai foggiani F aver voluto strappargli violentemente dal fianco il suo fido vicario, e che cominciava nel contempo a temere anche per sé, si allontanò da Foggia in compagnia del suo medico dottor Vincenzo Raho, nonché del suo segretario can.co Luigi Ciavarella, facendo le viste di aver bisogno di curarsi da una risipola facciale, e partì alla volta di Napoli, ripa­rando a Portici. La curia rimase così completamente acefala, perché il Monforte non credette, pensatamente, di affidarla ad alcuno: che anzi t'acuito i parroci a fare tutto ciò che con-cernesse le proprie parrocchie, senza più controllo di autorità superiori. S'inaugurava in tal modo in tutta la diocesi, per volere dello stesso Pastore, scompigliato dalla bile e dalla paura, un' era di anarchia, di cui niuno poi, a dir vero, mostrò mai di preoccuparsi.
Con decreto del 29 febbraio, a norma dell' art. 62 dello Statuto costituzionale, pubblicavasi la legge elettorale provviso­ria, mediante la quale si stabiliva procedersi alle elezioni politi­che per distretto. Assegnavasi per ogni quarantacinquemila abitanti un deputato che possedesse una rendita di dugentocinquanta ducati; e, con un concetto perfettamente misero e restrit­tivo, concede vasi il dritto del voto soltanto a coloro che aves­sero avuta una rendita di ventiquattro ducati, ai professori dell' Università e del collegio militare, ai membri ordinarii di tre r. Accademie, ai giudici, ai decurioni ed ai pubblici fun­zionarii a riposo, già regolarmente pensionati. Con altro de­creto, in data dello stesso dì, veniva poi convocato il Parla­mento pel primo di maggio.
Sicché a Foggia sin dal quattro di marzo ebbe a riunirsi il Decurionato non solo per la prestazione del rituale giura­mento, ma per occuparsi eziandio della nomina dei membri della giunta elettorale, la quale, sotto la presidenza del sin­daco, avrebbe dovuto formare le liste secondo la legge. A tale alto e delicato ufficio furono prescelti i signori Francesco Paolo Modula, Vincenzo Celentano, Domenico de Angelis e Giovanni Battista Postiglione, i cui nomi, resisi di ragion pubblica, pro­dussero ottima impressione.
Il nuovo intendente, frattanto, che avea già preso possesso della carica, si recò lo stesso dì, in gran pompa, a prestar giu­ramento alla Costituzione nella chiesa matrice insieme con tutti gì' impiegati civili ed amministrativi; funzione solenne, che fin dall' alba era stata preannunziata alla città intera con petardi e scampanìo, da rompere in malo modo la testa ai dormienti. A causa, pelò, di un inopportuno cattivissimo tempo non potè formarsi un regolare corteo, sicché tutta la festa si circo­scrisse nell' interno del tempio, ove, concorrendo alla solen­nità 1' animo di tutt' i cittadini, forte vibrante il grande inno della commozione patriottica, la guardia nazionale, agli ordini del sotto-capo avv. Michele Ricca, rese gli onori delle armi alle autorità, recatesi colà in eleganti equipaggi, scortati da' lancieri.
11 Coppola prese posto nel presbiterio innanzi ad un tavolo, ricoperto da elegante tappeto orientale, e su cui trovavasi dischiuso il libro degli evangeli!, rilegato in marocchino rosso con borchie di argento. Rizzatosi poscia in piedi, ei ricevette tutti gl' impiegati convenuti alla cerimonia, leggendo la formola rituale e invitando ciascuno a poggiare la mano destra sul croci­fisso, litografato sulla prima pagina del volume quivi dispiegato, e controsegnando con la propria firma il giuramento prestatosi. Venne quindi cantato il Te Deum, e, dopo la benedizione, im­partitasi dall' altare maggiore, tra un non meno assordante suono di campane, la funzione ebbe fine.
il Anche al tribunale di commercio si tenne lo stesso giorno, in udienza, la solennità del giuramento ; ma quivi giudice Agnello Iacuzio rifiutossi di giurare mercé la formola prescritta, estimandola tisica e insufficiente, per lo che venne sospeso dalle funzioni sin quando ottemperasse, con miglior consiglio, alle disposizioni di legge.
La sera rimase la città priva di luminarie a causa della pioggia, che non si accorse del brutto mestiere che faceva di guastafeste, e che era divenuta più spessa ed insolente ; in­vece riuscì brillantissimo lo spettacolo di gala al teatro, dove fu cantato altresì un inno patriottico, scritto da un dilettante-musicista foggiano, a nome Giuseppe Mascia, un' artistica spe­ranza mancata. La festa finì, però, frastornata da uno spiacevole incidente, provocato da un tal Vincenzo del Conte, giovane foggiano anch'egli e di famiglia eminentemente liberale. Questi, alla fine dello spettacolo, ottenne licenza dall' intendente di leggere dal palcoscenico un suo scritto, in cui aveva conden­sate le proprie impressioni sulla Costituzione. E tentò, con grande ardimento, di volere imitare il tribuno napoletano Giuseppe Bardano, il quale sfidò la galera quando, nel Caffè del Pro­gresso alla Pignasecca, qualificava pubblicamente lo Statuto come immorale e vergognosa versione di quello di Francia, chiedendo, invece, 1' adozione della democraticissima Costitu­zione di Spagna, promulgata a Napoli nel 1820. Il nostro gio­vane concittadino, infatti, cominciò a stigmatizzare la legge elettorale come un ulteriore parto infelice del Bozzelli, e la stigmatizzò con parole roventi, dimostrando ch' essa dovesse venir corretta in senso veramente liberale per quella parte, in ispecie, che designava le diverse categorie degli elettori, pur essendo assai lontana dal concetto odierno, eminentemente razionale e democratico, che il voto cioè debba riuscire, più che altro, di sprone alle classi incolte, per raggiungere la pere­quazione dei valori e per togliere ogni differenza tra il voto di chi serve e quello di chi comanda. Il pubblico, nel meglio, interruppe il bollente interlocutore e non permise ch' egli con­tinuasse in tale lettura, quasi redarguendolo della sua giova­nile tracotanza con un agghiacciante « basta », contornato di urli e di sibili da rintronarne le orecchie. Sicché tutti abban­donarono il teatro, a torto disgustati, commentando quindi, in vario senso, nei corridoi e per via 1' accaduto. Lo stesso spettacolo, meno, naturalmente, il discorso di del Conte, fu ripetuto la sera del sei di marzo a beneficio delle orfanelle recluse nei conservatorii della città, e fu sì stragrante la folla degli spettatori che si ottenne un incasso meraviglioso, supe­riore ai cento ducati.
 Partitosi, con dispiacere della cittadinanza, il sette di marzo da Foggia il reggimento de' lancieri, della locale guarnigione, a causa di un ordine telegrafico con cui veniva chiamato a Napoli , volle installarsi nel Corpo di guardia già occupato da costoro, e precisamente in quello detto della Granguardia sotto il palazzo della dogana, la milizia nazionale foggiana. In conseguenza, il quattordici dello stesso mese, trecento cittadini armati, con la loro bandiera, che fino a quel momento era ri­masta presso il capoguardia Giuseppe Celentano, annunziati dal rullio dei tamburi, vennero a prenderne possesso, mentre altro nerbo di essi riunivasi in una caserma improvvisata sul Piano della croce per mantenere così l'ordine pubblico nei quartieri più popolati da lavoratori e da terrazzani. Non potevasi, invero, prevedere ciò che da un istante all'altro avvenisse anche  per un nonnulla perchè,   la folla è come un campo di biade : si agita al menomo soffio e divampa d' un baleno per un zolfanello gittatovi entro con malizia o a semplice trastullo. Le notizie che pervenivano dai paesi vicini non eran certo delle belle : ovunque ferveva la rivolta, la quale purtroppo è contagiosa come lo sbadiglio. Infatti la febbre degli altri  stuzzicò       alla pur fine la febbre nelle masse foggiane, che, ad intervalli, mostrarono di non più serbare 1' abituale moderazione.
Ed ecco che una sera si forma in piazza mercantile un primo capannello di gente, poi un secondo, un terzo, e finalmente una turba addirittura dilaga da ogni parte, e, gridando « fuori lo straniero » , si corre da tutti, con unico intento, a circondare la chiesa di san Tommaso apostolo. Quivi esercitava da tempo le funzioni di parroco il sacerdote Michele de Girolamo, un buonaccio della vicina Orsara. Tale origine costituiva il suo gran peccato : se Orsara gli avea dati i natali, ad Orsara ei dovea tornare, mentre Foggia doveva essere dei foggiani, di nessun' altro che dei foggiani. Com’ erano rigidi ed intransi­genti i nostri antenati !... Indotti, dunque, dal formidabile unanime grido « fuori lo straniero », invasero in cento le poche camere sovrastanti la sagrestia, donde scovarono l'allam­panato don Abbondio, più morto che vivo. A furia di calci, di pugni e di spintoni lo accompagnarono sin fuori l'abitato, ove lo deposero su d' un calesse come un cencio disfatto, e lo fecero partire. Poscia, senza punto disciogliersi, si trasformarono quasi in Costituente per intendersi intorno alla scelta del successore, e, dopo discorsi infiammati che si pronunziarono d'ogni parte, venne, tra urli e schiamazzi, proclamato qual vicario-curato in san Tommaso apostolo Vincenzo Fania, prete foggiano, della cui nomina si affrettarono di avvisare essi stessi il cancelliere della curia ecclesiastica.
In quei momenti eccezionali, in cui non si avea più la misura nelle manifestazioni popolari, e quando gl' ignoranti specialmente, come in tutte le rivolte, agivano inconscienti, quali altrettante macchine, nella falsa credenza che, in grazia della Costituzione, potessero far mano bassa di tutti e di tutto, le autorità si mostravano anchilosate, irrigidite, indifferenti a tutto ciò che accadeva. Anzi esse, senza muover ciglio, lasciavano correre la fiumana per la sua china, e tolleravano le pazzie della piazza fino ad estremo limite sì per evitare conflitti pericolosi, sì per non avere alla portata forza numerica bastevole e bene organizzata da mettere sicuramente in freno le masse, sebbene il governo avesse sperato effetti salutari — oh ingenuità asinina ! — dal nuovo battesimo della vecchia gendarmeria in guardie di pubblica sicurezza.       
La miseria, intanto, non arrestava la sua marcia vertiginosa. Mentre da due mesi in Foggia non si attendeva più agli affari, e le arti ed i mestieri erano stati messi in non cale, le professioni d" ogni genere languivano pur esse in un torpore indecifrabile. L' espediente era la vita d' ogni giorno, e, più che V espediente, il furto. Non si poteva quasi cacciare più il naso fuori la propria abitazione, perché i ladri erano divenuti di un' audacia fenomenale, e di pieno meriggio assalivano, percuotevano, dispogliavano chiunque, senza aver paura di chicchessia. Alle porte di Foggia sembravano annidati come al posto dei doganieri, per lo che il transito dei traini, specia1 mente, era divenuto difficile, tanto vero che nel dì 16 marzo '48 uno di questi, che allora allora n' era uscito sulla via consolare che mena a Napoli, fu, con abile appostamento e con audacia da non si dire, sorpreso sotto lo sfolgorante sole da parecchi malandrini armati insino ai denti, rimanendo derubato di una cassetta, pingue di ben dugento ducati in oro e in argento, e di una tabacchiera di oro cesellato, che il vicerettore del seminario, spediva, chissà come e perché, al famoso Maldacea, ex-vicario generale della diocesi, a Portici, cosa che quei manigoldi non dovevano certo ignorare.
In vista di così spaventevole spostamento economico, che alla povera gente faceva addirittura mancare il tozzo di pane giornaliero, 1' amministrazione comunale, premurata ed autorizzata dal governo, ideò nuovi lavori a farsi, e cercò così di adibire un gran numero di operai alla riattazione in brecciame di diversi sobborghi e vicoli della città, come al ripulimento dei fossati e alla piantagione di alberi lunghesso i fianchi delle vie esterne.
Un fatto abbastanza increscioso venne ad inasprire un po' più dell' usato gli animi dei foggiani, e devesi all' energia del sindaco se scongiurossi allora una popolare e terribile insurrezione. Il vescovo Monforte, che non avea dimenticato il trattamento fattosi al suo protetto Maldacea, scrisse, fors' anche stimolato da costui, in compagnia del quale trova vasi a Portici, al sac. Gaetano Zammarano, vice-rettore del seminario, ch' egli — ma non punto esatte erano le sue affermazioni—si mostrava dolente della inosservanza della disciplina, che avea migrato da quell’ instituto, come del poco profitto negli studii che venivan traendo i giovani ordinati in sacris. Per lo che, non potendo—com'ei diceva—tollerare d'avvantaggio simigliante mal governo, a discapito del buon costume e della istruzione, lasciava completa libertà e a lui, e ai docenti, e ai discepoli di andar via quante volte il volessero, prima che si fosse preso un provvedimento radicale per l' avvenire, provvedimento che poteva estendersi sino all' abolizione completa del seminario. La bomba era scoppiata : il Pastore sfidava, a viso scoperto, la sua gregge, credendo così di trame finalmente vendetta allegra.
Luigi de Noia, il quale avea capitanata la folla per l'ostracismo del Maldacea da Foggia, in ciò udire, si rimise all' opera con i suoi amici, perché l’ azione deleteria di costui venisse ad arrestarsi nel suo inizio, scongiurando gli effetti della grave minaccia fatta dal Molitorie. Al suo richiamo furon presto riunite come per incanto circa trecento persone, decise a garantire fin con la violenza i dritti della città ; ed esse, con a capo il de Noia, si recarono dal sindaco, presentando al1' uopo solenne protesta. Il de Luca immantinente chiamò sul palazzo civico il vice-rettore del seminario per essere edotto della realità delle cose ; e, convinto quindi che le affermazioni del vescovo fossero destituite d' ogni base, convocò di urgenza il Decurionato pel venticinque di marzo, quando venne deliberato, ad unanimità di voti, doversi pubblicamente rinsaldare i dritti della città, ricordando pure una volta all' universale che né il vescovo, né altri potessero farsi donni sovra il seminario, ch' era di esclusiva pertinenza municipale ; e ciò in forza di uno stipulato, interceduto nell' anno 1842 tra il Comune e 1' autorità ecclesiastica. Che da un tal rogito traevasi come il primo fosse concorso con la somma di tremila ducati per 1' acquisto del locale dall' antico proprietario duca di Civitella e per le spese di adattamento ad istituto di educazione sacerdotale ; e risultava altresì, per patto espresso, che né il vescovo dell' epoca (che era lo stesso Monforte), né i suoi successori avessero, in modo assoluto, facoltà di abolire tale istituzione o di mutarne le finalità, dovendosi, in tal caso, come ultima ratto, rimborsare, innanzi tutto, il Comune della somma all' uopo erogata. Il de Luca rese nota alla cittadinanza, con relativi affìssi, tale deliberazione, che comunicava del pari all' intendente, perché si spedisse al ministro del culto. Avvisò intanto il vice-rettore che non desse luogo a novità veruna, in attesa dei provvedimenti ministeriali, che non vennero poi mai, lasciando per tal modo al vescovo il tempo di riflettere sull' imprudente epistola da Ini scritta, e di farne ammenda completa.
Ma, mentre scongiuravasi anche questa volta uno scatto popolare, altre minime cagioni sopravvennero per farlo nuovamente temere. Si seppe, infatti, nelle ultime ore dello stesso venticinque marzo che, fin dalla sera prima, avea preso asilo in Foggia il boia di Palermo, a nome Antonio Musco da Cerisano, scacciato da quella città come orroroso strumento della tirannide, e che era stato invece destinato dal governo a prendere domicilio in Avellino, dove, però, non appena ebbe messo il piede, fu minacciato nella vita e costretto a rifar la via sino a Foggia. A tale inaspettata notizia corse come un brivido nella folla,che ne sentì profondo disgusto, non potendo tollerare tra le proprie mura la presenza di così vile ministro di sangue. Sicché si prese a correre su per gli alberghi e le camere mobiliate, nonché per le così dette taverne, e ovunque, ansanti, si fiutava come bracchi in cerca della preda. E si misero del pari in movimento le autorità tutte per appagare l'unanime voto:   
la polizia visitò gli angoli più remoti dell' abitato, e riuscì infine a scovare il malarrivato, che tubava con una sua Dulcinea in una locandaccia d'infimo grado, ordinando ad entrambi di presto lasciar Foggia per altri lidi. Essi, pur non opponendosi a tale recisa intimazione, dichiararono di non avere in dosso la croce di un quattrino, e richiesero quindi i mezzi indispensabili per riporsi in cammino. Accontentati, presero posto su d'un calesse, e vennero scortati da poliziotti sino al ponte di Bovino, donde proseguirono, chissà per dove, la loro corsa forzata.
E il 28 di marzo '48, a sera, la messaggiera postale, pervenuta da Napoli, menò a Foggia un Giambattista de Angelis, altro spirito bollente foggiano, dalle forti ed audaci iniziative, il quale, come anello di congiunzione tra comitato e comitato, non si stancava di andare in giro per paesi e paesi, e di tener vivo così nel Mezzogiorno anche lui, fra tanti, il movimento rivoluzionario. Si accompagnava egli a tal Gioacchino Magone, liberale molfettese, col quale, non appena giunto, si recò difilato alla sede del comitato centrale, ov' erano riuniti, oltre al presidente Agnello Iacuzio, Carmine Durante, Gaetano Tanzi, Luca Pece, Nicola Rosati, Orazio Sorge, Felice Patierno, Michele Ricca, Giovanni de Anellis, Tommaso del Conte, Francesco Paolo Vitale, Giacomo de Maria, Francesco Severo e tanti e tanti altri generosi, di cui vorremmo ad ogni pie sospinto, per nostra intima soddisfazione, ricordare i nomi.
Costoro si erano tutti colà adunati per ricevere appunto il loro carissimo concittadino de Angelis, che veniva a discutere dei comuni interessi politici e dell' urgente riordinamento, in senso prettamente liberale, da attuarsi nell'amministrazione della cosa pubblica. E fu, per conseguenza, prospettata dal de Angelis la necessità impellente di agire senza riguardi e ritrosie per costringere le autorità con ogni mezzo a spingersi realmente sulla via delle riforme, perché il loro persistente atteggiamento da lumaconi in tutt' i rami di amministrazione, quando il nuovo soffio avrebbe dovuto in altra guisa ravvivarli, dava ad intendere che la Costituzione fosse per loro una lustra, e che tutto sarebbe dovuto rimanere nello statu quo, come stagno indisturbato. Ciò che poteva contentare   i   gonzi, i quali  non guardano una spanna al di là del proprio naso, riesciva ridevole pur troppo per coloro che possedevano un briciolo di cervello e che non si accontentavano certo né di parvenze né di paroloni, ma che amavano di vedere una buona volta la reale attuazione di qualcosa veramente benefica e salutare, che, mercé l'opera dei pubblici funzionarii, fosse pegno di una vera e leale metamorfosi già avvenuta sostanzialmente nell' ordine sociale. Tutti del comitato furono di accordo col proponente de Angelis, e stabilirono perciò di andare in commissione dal sindaco, che, come rappresentante legittimo della città, avesse presa l'iniziativa di quel risveglio, assumendo ali' uopo un' a-zione risoluta, e, all' occorrenza, se ve ne fosse stato il bisogno, persino violenta di fronte all' autorità politica.
Ma quando la Commissione, surta dal loro seno, si presentava al palazzo di città, ed usò col sindaco marchese Luigi de Luca un linguaggio chiaro, esplicito e senza sottintesi, costui videsi impacciato a segno, che non seppe fare alcuna promessa, ma, con frasi vaghe e indeterminate, tentò, eccitando ognuno alla calma, di mitigarne gli ardori e di scongiurarne i bellicosi propositi. A tale inaspettato atteggiamento il de Angelis divenne scarlatto, quasi congestionato, mentre gli occhi gli si enfiavano e il viso gli si contorceva come una foglia nell' afa che precede la burrasca. Ei non ebbe più la forza di contenersi, e. spogliando quindi il suo dire di ogni vernice di convenienza, fece comprendere al sindaco de Luca che non si aveva il diritto d'indossare la divisa di primo magistrato del capoluogo di un' importante provincia quando forse, per pusillanimità, non potrebbesi rappresentare neanche un' umile borgata. Che non era più il momento di tentennare e di tenere a bada chicchessia, ma era d'uopo prendere una posizione netta e recisa. E qui, pittandogli, sulla tavola da scrivere, una rosetta di nastri tricolori, « prendete » gli disse, « strappate dal vostro cappello la coccarda rossa, e abbiate almeno il coraggio di sostituirla con questa, che è il vero simbolo della libertà ». Il de Luca non la raccolse, ma, terrorizzato, cercò ancora di schermirsi alla meglio, per evitare ad ogni costo una compromissione. Però il de Angelis, ch' era pervenuto ad un grado di parossismo in cui non intendeva più qualsiasi invito alla calma, si rivolse ai compagni e li incitò a seguirlo ; che. se il sindaco nicchiava, l'intendente, invece, sarebbe stato costretto a fare il suo dovere.
Francesco Paolo Vitale, Antonio de Maria e Nicola Mancini vennero tosto con lui al palazzo della dogana, ove furono ricevuti con ogni garbo dal Coppola. Senza molti preamboli il de Angelis aprì il certame con la spigliatezza d'un bersagliere, e, difilato, corse a bollare cruentemente gli alti papaveri delle amministrazioni della provincia, cominciando dal più grosso di essi, che lo ascoltava con sangue freddo e nel massimo stupore, e di cui dimostrò la supina inerzia e partigianeria. Che bisognava metter mano — ei diceva — urgentemente ad una riforma radicale di quell’ ignobile gergo cavalieresco e segretariesco, che suoi chiamarsi burocratico e che, con migliore dizione, fu addimandato birrocratico. Che era tempo ormai di mutare gli antichi sistemi, se non si volesse dare il diritto a chiunque di pensare che ciò derivasse da fermo proposito e da profonda inala fede. Che l'ingerenza del potere ecclesiastico, fra l'altro, e sopra tutto, porro unum necessarium, la ingerenza personale del vescovo Monforte nelle pubbliche amministrazioni locali doveva alla buon' ora finire, giacché essa riusciva deleteria, sotto ogni aspetto, e direttamente pericolosa per ogni progresso civile. Che il paese — ed era ora di finirla — si aspettava una risposta categorica e decisiva alla intimazione di resa. Il Coppola, innanzi a sì terribile filippica, guardò il de Angelis quasi col sogghigno con cui Omero guardava le gagliardie delle rane e dei topi ; pure preferì di non reagire e di rifondervi fors' anche un tantino del suo prestigio per non provocare possibili maggiori risentimenti. Con simulata pacatezza assicurò la Commissione ch'ei prendeva impegno di studiare, con largo criterio di giustizia, le riforme possibili ad attuarsi, e che nell'animo suo non vi era che il desiderio di esaudire, in ogni modo, il voto della cittadinanza, sempre quando questo non venisse a cozzare con le esigenze dell' amministrazione e con le disposizioni di legge.
Il de Angelis e la Commissione, vedendo che uccellavano con le farfalle e che il voler far prendere all'intendente una decisione hinc et nunc era come pestar 1' acqua nel mortaio, andarono via, nemmanco soddisfatti da promesse sì vaghe e dilatorie. Lasciarono però alla stampa di completare 1' opera da loro iniziata, giacché da quel momento i giornali locali presero a pubblicare articoli di brace or contro 1' uno or contro l’ altro dei funzionarii della provincia, inclusi gii stessi magistrati, tacciati di partigianeria nelle loro sentenze. E vennero del pari scudisciati parecchi impiegati privati, che, servendosi del salvacondotto di liberali, cercavano, a loro dire, di sfruttare le pubbliche amministrazioni e di trame un profitto esclusivamente personale. Insomma si aprì tale un periodo di critica e di censura per tutti e su tutto, che la polizia, temendo che allo scandalo tenesse dietro micidiale rivoltura, credette prudente consiglio di allontana e il de Angelis ed il Magone da Foggia, facendoli, di notte tempo, ripartire per Napoli. Furono, intanto, afforzati i posti di guardia ed aumentate le ordinarie pattuglie in città per paura si turbasse l'ordine pubblico ; il che, in verità, non ebbe poi ad avverarsi.
Nella domenica e nel lunedì successivi, 2 e 3 aprile '48, ebbe luogo innanzi al sindaco ed al Decurionato il sorteggio di dugento componenti la l.a compagnia della guardia nazionale, cui seguì, man mano, quello per altre ventisei compagnie, e allo scopo di scegliere tra essi coloro che dovevano assumere il grado di uffiziali e di sotto-uffiziali. Ma una tale scelta, che, per l'affluenza del pubblico, venne esaurita non prima di tre giorni nella gran sala del palazzo della dogana, provocò delle vive proteste, giacché la sorte avea favorito pochi gentiluomini del paese ; sicché gli esclusi, rosi dalla vanità e dal1' ambizione, si rizelarono e produssero, a norma di legge, formale ricorso al tribunale civile di Lucera, ricorso, per altro, che non ebbe alcun esito favorevole, e che non sospese, nelle more giudiziarie, le operazioni riflettenti le altre compagnie.
E il giorno quattro di aprile mille e dugento fucili furono intanto mandati da Napoli per armare la guardia nazionale di tutta la Capitanata, ma che i foggiani volevano ritenere soltanto per sé ; e furono divisi per ordine dell' intendente, che promise farne richiesta di altro buon numero, in proporzione fra tutti, e alla presenza degli uffiziali e del sindaco. Per lo che Foggia ne ottenne cinquecento, Lucera duecento, Sansevero altrettanti, e così, gradualmente, ogni altro paese della provincia.
Sopravvenne il quindici di aprile, e, sulle prime ore del mattino, fu vista giungere una diligenza tutta inzaccherata e con una bandiera tricolore sventolante accosto al cocchiere. Si acuì la curiosità di quanti la scorsero, i quali si accostarono alla così detta taverna di Minichetti, ove quella si era soffermata, per vedere chi ne discendesse. Erano dei signori lucerini, provvenienti da Napoli, che, dopo poche ore ivi di rinfresco, avrebbero ripreso il loro viaggio per Lucera. Ma tra i curiosi si presentò il sergente dei gendarmi a nome Fujano, fedelissimo protetto di Ferdinando II, il quale, urtatosi alla vista del tricolore come un toro dal panno rosso, investì il vetturino, chiedendogli ragione dello sventolare di quel drappo. Il vetturino rispose per le rime, dicendo ch' egli, issando la bandiera, avea creduto di fare atto di omaggio alla Costituzione. Non avesse mai osato di replicargli, che quel villano, datogli uno spintone da farlo ruzzolare per terra, né strappò a viva forza il tricolore e lo ridusse in brani. La folla, aumentatasi in men che non si dica, ondeggiò d'improvviso, mugghiando come fa il mare assalito da una raffica impetuosa, e tentò di schiacciare il dissennato, che, a difendersi dalla giusta ira popolare, sguainò la sua penzolante durindana. I lucerini, pallidi e tramortiti, chiedevano aiuto e protezione ai più animosi, i quali, vomitando su quella stumia di furfante una valanga di epiteti ingiuriosi, misero fuori anch'essi le armi, e stavano per farne giustizia sommaria. Ma il birro, lavorando di gomiti e di audacia, riuscì a sgaiattolare tra la folla: però, in seguito da un drappello di guardia nazionale, accorsa al tumulto, venne tosto acciuffato e tradotto nel posto di guardia. La folla riaccattò dal suolo i brandelli della bandiera, e, riunitili alla meglio, ricompose il tricolore, che, insieme ai viaggiatori, portarono in trionfo per le vie, gridando: " viva la Costituzione, viva i lucerini „. La sera costoro, con animo profondamente commosso, partirono per Lucera; ma l'indomani il sindaco di quella città e varii uffiziali della guardia nazionale locale si recarono a bella posta, in diverse carrozze signorili, a Foggia, per ringraziarvi tanti generosi dell'atto compiuto in prò dei loro concittadini. Visitarono, pel primo, il sindaco marchese de Luca, e poi, un per uno, vollero salutare gli uffiziali della nostra guardia nazionale, a tutti professando sentimenti di gratitudine. I foggiani accettarono con compiacimento il fraterno saluto, e fecero loro dintorno molta festa, che ebbe il suo riepilogo al Caffè Nazionale in piazza Saggese, ora del Lago (1), dove convenivano abitualmente i liberali più in voga, e dove, per conseguenza, può dirsi si disfacesse e si rifacesse da mane a sera la carta geografica di tutta Europa. Quivi si raccolsero quel giorno quanti vollero onorare la rappresentanza lucerina, quivi si levò il calice alla fratellanza dei due paesi vicini, che antichi rancori aveano tenuto sempre divisi, quivi quasi consacrossi tra loro, con teneri abbracci, un novello patto d'amore. Il sindaco, i decurioni, gli uffìziali della guardia nazionale accompagnarono, poco dopo, con magnifico corteo di equipaggi, i lucerini sino al limite del territorio foggiano, e poscia si divisero, scambiandosi novellamente frasi di simpatia reciproca e di amicizia.
Il Ministero si era rivolto all' intendente di Capitanata, come avea fatto del pari con gli altri intendenti, incitandolo a studiare attentamente le cause vere e reali di quello stato di miseria che affliggeva V intera provincia, nonché ad invigilare quanti fossero elementi di disordine, peste perenne di ogni organizzazione sociale. Che se la legislazione — conchiudeva la ministeriale — non può prevenire materialmente la ineguaglianza esistente fra le diverse classi della società, l'obbligo della polizia è di prevenire i mali, che possano scaturire dall' abuso delle ricchezze e della prepotenza, dalla corruzione della povertà e dalla indolenza oziosa. A tale scopo il Ministero venne altresì nella determinazione di nominare per ciascuna provincia un delegato governativo speciale, che vegliasse tuttodì, fino all' apertura del Parlamento, su' magistrati e sugli altri pubblici funzionarii, dandogli facoltà persino di rimuoverli dalla carica nel caso non adempissero scrupolosamente al loro dovere. E con decreto, pervenuto in Foggia il diciassette aprile di queir anno, nominavasi, per la Capitanata, a delegato speciale il signor Francesco Saverio Figliolia.

(1)   Questa bottega da caffè era tenuta, a quell'epoca, da un calabrese assai popolare del luogo, e che clùamavasi Rosario Maseia. Tra i liberali, elio abitualmente frequentavano questo locale, erano immancabili ogni sera gì' impiegati governativi Raffaele Fer-randino, Giovanni Cavaliere, Giuseppe Giannini, Raffaele Palmieri, Giambattista Sorrentino e Carlo Schiraldi, che non temevano di far risuonare in pubblico le forbici delle loro lingue contro l'autorità ecclesiastica, la gendarmeria, le spie, e fin contro i ministri e la stessa persona del re.   

Però a molti non piacque una tale scelta, tanto che cominciossi ad impegnare una vera campagna contro di lui e su qualche giornale locale e su fogli volanti anonimi, di cui qualcuno va conservato tuttora tra le mie carte antiche di famiglia, e che, destituito sin del nome della tipografia che lo pubblicava, non ho creduto qui riprodurre, perché mi ha 1* aria di un vero libello diffamatorio. Il Figliolia polemizzò allora coi suoi detrattori, cercando di rintuzzare gli oltraggi e le calunnie, si agitò, minacciò, ma non valse a scongiurare un nuovo decreto, col quale lo si dispensava dall' incarico affidatogli.
In seguito di tale fulmineo provvedimento, che non permise al Figliolia neanche di prendere possesso del suo ufficio, venne messo in aspettativa l'intendente Coppola, surrogato alla sua volta dall' intendente del Molise signor Andrea Lombardi, con la nomima, ad un tempo, del segretario generale in persona del signor Girolamo Fuccilo, consigliere dell’ intendenza di Potenza.
Ma, oltre a codesti delegati speciali, il governo stabilì dovervi essere in ogni capoluogo un Consiglio di pubblica sicurezza o Commissione, che dicevano, comunemente, di spirito pubblico, presieduta dall' intendente e composta del comandante le armi della provincia, del procuratore generale del re e di tre notabili locali, allo scopo di dover curare col semplice ascendente dell'autorità morale sulle moltitudini, la conservazione dell' ordine pubblico in armonia coi principii statutarii, e garentita. all' occasione, dalla milizia nazionale e regia. A tale oggetto il ventisette aprile si riunirono al palazzo della dogana il marchese Tommasantonio Celentano, consigliere decano dell' intendenza, che funzionava allora da intendente per non essere ancora il Lombardi venuto in residenza, il comandante della provincia e il giudice di Corte criminale Francesco Morelli, che funzionava da presidente in Lucera per V assenza del titolare ; e, mentre si era per nominare i tre notabili, fu an-nunziata loro una deputazione del popolo, composta dei signori Tommaso Tonti, Nicola Mancini, Gaetano Tanzi, Saverio Tarantino, Aurelio Mele e Scipione Cafarelli, che chiedeva di essere ricevuta. La si fece introdurre nella sala ov' erano raccolti, e, non appena venuta in loro presenza, prese la parola il Tonti, che, annunziandosi quale emissario, con gli altri, della volontà sovrana del popolo, diè lettura di un elenco di per- sone da potersi prescegliere a notabili, come meritevoli di stima e di fiducia. I nomi che si proponevano erano quelli di Agnello Iacuzio, Michele Cinquepalmi, Francesco Paolo Vitale, Matteo Nannarone, Michele Postiglione e Antonio Sorrentini. La Commissione si vide turbata nella serenità del suo lavoro, e dette loro affidamento che la scelta sarebbe riuscita di generale soddisfazione, inspirata essa al concetto di doversi affidare un sì delicato incarico a persone che davvero lo meritassero. In ciò udire la deputazione andò via fidente ; dopo di che la scelta, seduta stante, fu fatta nelle persone di Carlo Vincenzo Barone, di Lorenzo Filiasi e di Matteo Nannarone, designandosi a segretario il capo della polizia, tal Francesco Tibi.
I tre nomi non spiacquero alla maggioranza dei foggiani, ma solo quello di quest' ultimo suonò assai male all' orecchio di molti, tanto che incominciossi a tumultuare in piazza e a far capannelli qua e là, in segno di protesta. Francesco Petrilli, Gaetano Giampietro e Scipione Cafarelli risolsero di portare la protesta del popolo al sindaco, facendogli notare che, essendo colui un siciliano, non poteva essere non solo accettato qual segretario della Commissione di “” spirito pubblico “”, ma eziandio non più tollerato in un' amministrazione foggiana. Il sindaco, come uomo di pace, cercò d'infondere anche in loro un centellino di calma, ma non vi riuscì, tanto che il Petrilli, il Giampietro e il Cafarelli, ridiscesi in piazza, incitarono la folla ad imporre con la forza il proprio volere. Infatti, verso le sette della sera, videsi man mano aggruppar gente a gente presso la casa del capo della polizia, e quando un mare di teste, formicolanti per ogni angolo, non lasciarono più posto laggiù ad un granello di miglio, s'iniziarono le grida di « abbasso Tibi, abbasso Tibi ». Costui non era rincasato ancora, e la notizia, sparsasene in un baleno tra la folla, fece sì che i caporioni si muovessero ad incontrarlo. Quand' ecco ch'egli spunta da un vicolo vicino, e coraggiosamente si avanza; ma, a tale vista, gli ultimi si fanno primi, e, senza dargli tempo a parlare, stavano per accopparlo, quando il Tibi, già mezzo pesto, ebbe agio di sfuggire alle loro mani e di raggiungere la sua abitazione, ove si fortificò, sbarrando il portone e le finestre, e donde riuscì poi a mandare un messaggio agli assedianti, col quale facea loro sapere che l'indomani, di buon mattino, avrebbe lasciata la città.
L'eccitamento per ogni nonnulla, in cui trovavansi da varii giorni gli animi specialmente delle classi meno abbienti, cominciò ad impensierire le autorità e la cittadinanza intera. Un pò di allarme, non e' era da dissimularlo, aveano suscitate in Foggia le notizie che si ricevevano in tutte le ore da Bovino, da Serracapriola, da Troia e da altri Comuni della provincia, dove turbe intere di contadini avevano invasi i feudi principeschi e ogni altro ricco podere, e con prepotenza aveano quivi preso a dissodare terreni, a tagliare e a svellere alberi, a rimuovere titoli lapidei, a bruciare mete intere di paglia, a demolire case rurali, chi per impossessarsi di tutto e farla da padroni, chi per spirito vandalico di devastazione. Né potevasi dalle autorità agire con energia per metterli a posto e garentire i proprietarii, perché prive, come accennammo, sì dì forza morale che di forza materiale. E mentre la bufera imperversava su per le campagne, le autorità a furia di segnali, mercé le primitive assicelle, assai meschine avole del telegrafo senza fili, implorarono da Napoli almeno un pò di truppa in loro soccorso. Si era dunque, per necessità di cose, in un periodo di semi anarchia con parentesi epilettiche, che facea sul serio tremare le vene e i polsi anche ai più indifferenti e pessimisti. Pure ben da parecchi anni addietro avrebbesi potuto cercare di prevenire il male, perché sin d'allora erano pervenute all' intendente, da ogni parte della provincia, le unanimi e dolorose proteste a causa della cresciuta popolazione e dei crescenti bisogni, essendo, per conseguenza, risultate insufficienti le terre rimaste a libera coltura. Uno strabocchevole demanio sul Tavoliere erasi concesso ai signorotti di questo o di quel paese, che, mietendone assai pingui tesori, erano stati messi, per tal modo, in condizione privilegiata da poter spendere e spandere in larga misura, mentre, d' altra parte, uno sciame di contadini,di povera gente,insomma, si lasciava morire spietatamente tra gli spasimi della fame. Questa questione, cotanto grave, non si era voluta risolverla ; e costoro, pur potendo vantare un diritto, non trovaron mai chi glielo riconoscesse appieno. E questo loro diritto rimontava fino ai tempi degli aragonesi, quando ben ventidue difese furono acquistate da quei re, residuo dei remoti campi dell' erario romano (agri pnblici P. R.), tramandato poi di generazione in generazione a coloro ch' ebbero il principato di quelle contrade, e residuo del pari  dei deserti campi appartenenti alla chiesa e ai monasteri distrutti dalla Corte pontifìcia ; difese, che, aumentate con altri fondi feudali ed erbaggi, Alfonso I estese sino al contado di Molise, come Ferdinando I sino alla Basilicata e alle due Terre di Otranto e di Bari, concedendole al popolo in censuazione. La quale, perpetuatasi in taluni col danno di altri, sollevò gli esclusi, che si rivolsero nei 1792 a Ferdinando IV di Borbone perché avesse reintegrata la primitiva concessione, fattasi per risollevare tutti e non pochi soltanto, togliendo così ogni disparità di trattamento. E Ferdinando IV, che intendeva dare, infatti, ai poveri contadini un pezzo di terra dalle quattro alle dieci versure, commise lo sbaglio di rimettere 1' esame della domanda ed il relativo giudizio al tribunale della dogana di Foggia, che opinò di non aversi facoltà di togliere le terre, già concesse, agli attuali coloni, per essere il contratto di mera censuazione perpetua, adducendosi, in sostegno, un regio rescritto, dato per eco ad una male interpetrata consulta della Sommaria. Invano il re fece riesaminare lo stesso deliberato da cinque togati, che aveano retta per lo innanzi quella dogana, e che si mostrarono favore voli alla richiesta, giacché, nel momento della esecuzione, lo stesso governatore di detto instituto porse braccio forte agli utenti, e mandò tutto in dileguo, facendo che lo sconcio continuasse anche contro la volontà del sovrano. I nostri contadini, sopitisi novellamente, si ridestarono nell' anno 1846, quando Ferdinando II ebbe a venire in Capitanata per assistere alle manovre che si tenevano dalle truppe tra Bovino ed Ariano, ospite a Deliceto dei pp. liguorini, e rivolsero a lui, direttamente, le relative suppliche, messe poscia del pari in oblio. Ma la Costituzione aveva creato in loro il convincimento che il tempo della rivendicazione fosse già venuto, e che, all' ombra di essa, non si potesse finalmente non riconoscere il proprio diritto ; sicché il torrente della rivolta doveva per necessità irrompere e dilagare non appena il 22 aprile '48 si concesse, con apposita ministeriale, ai Comuni la facoltà di poter fare riacquistare dai privati gli antichi diritti demaniali. Fu allora che da parecchi di essi, anzi che pensare di rivolgersi, per lo scopo, al magistrato, si preferì di esercitare da sé 1' affermazione di tale diritto, e di procedere alla divisione delle terre con la forza e con la violenza. Gli  stessi  giudici  regi,  nei  piccoli  paesi,  spogli, in un momento, di autorità e di prestigio, rimasero, con le mani alla cintola e senza tirar flato, a rimirare lo spettacolo neroniano, col pericolo, altrimenti, di divenir vittime del furore popolare. Che se qualcuno più zelante e ardimentoso, come a Savignano e a Deliceto, volle fare il viso d' arme, ebbe spiacevolmente ad accagionare, col fatto suo, esplosioni d'ira e danni maggiori.
In così anormali condizioni, in cui trovava»! la nostra provincia di Capitanata, causa la cattiva interpetrazione data alla Costituzione, Foggia a ragione dovea temerne il contraccolpo ; per lo che i pacifici cittadini, ad ogni più lieve moto di piazza, correvano a rinchiudersi nel guscio delle proprie case, tremanti di paura per la vita e per gli averi.
Tibi, dunque, dovè lasciare Foggia ad ogni costo : così il popolo avea voluto, senza che alcuno abbia potuto opporvi resistenza veruna. Ma Tibi non doveva essere il solo, e con lui dovea pure andar via il ricevitore generale del Tavoliere, Achille Smith, parimente inviso alle moltitudini. I signori Giuseppe Carelli e Giambattista Cicella furono delegati ad annunziarglielo, presentandogli un interminabile elenco di cittadini, con le relative firme autografe, che tale ostracismo avevano decretato. E del pari Smith, che vide inutile ogni scampo, chinò obbediente il capo innanzi alla volontà del popolo sovrano e partì.
Era pervenuto, intanto, al comitato di Foggia, in migliaia di esemplari, un proclama a stampa con l’ epigrafe : I Calabresi agli abitanti di Capitanata. Con parole di fuoco si aizzavano le masse contro le autorità tutte, di qualcuna delle quali si abbozzava financo una non bella biografia, e le si dimostrava non solo inette, ma pericolose per l’attuazione completa della Costituzione. E mentre il proclama passava da mano in mano, eccitando le masse alla ribellione, capitò in Foggia dalle stesse Calabrie Francesco Romeo, fratello del noto agitatore Giandomenico Romeo, gentiluomo di S. Stefano, caldo ed animato patriota, come lo chiamavano i liberali dell' epoca, e che, un anno prima, come ispettore generale delle dogane, aveva percorse, senza dar sospetti, tutte le provincie del Mezzogiorno allo scopo di serrare in un fascio i rivoluzionarii delle due Sicilie e di tentare, all' occasione, un sollevamento collettivo e simultaneo col concorso della gioventù bollente e dei ricchi proprietarii ; scopo che poi non raggiunse, giacché, a un primo inizio di sedizione nelle sue contrade, ebbe staccato il capo dal busto (1);

(1)   Vedi Mariano d'Ayala, Vite degVItaliani benemeriti della libertà e della patria, — Torino 1880.

Da una parte i liberali foggiani si attaccarono a lui come ad un fratello, e presero a secondarne le mire, ch' eran sempre quelle di stringere ancora più i vincoli di solidarietà tra i rivoluzionarii delle provincie, mentre, dall'altra, vi fu chi venne colto da tale un panico che gittò dappertutto lo scompiglio. E che cosa ci vuole per determinare specialmente l'allarme tra le donnicciuole ? Furon queste che, in sentire buccinare dai loro parenti il nome del Romeo come d'un rivoluzionario, temendo ch'ei fosse un pericolo per tutti, si misero a gracidare come oche, e costrinsero a tapparsi con loro, nelle grotte e negli stambugi, i mariti e i figliuoli, cui più non permisero di cacciare fuori di casa neanche la punta di un dito. Uno sbatacchiar di usci si sentì allora in un baleno d'ogni banda, mentre i più pacifici cittadini fuggivano, fuggivano per le vie senza saperne il perché, e, madidi d'un gelido sudore, raggiungevano le loro abitazioni. Invano parecchi gentiluomini foggiani, venuti in piazza, cercarono di persuadere i timidi che nulla ci fosse da temere, che il Romeo andava in giro per la città per raccogliere, a loro dire, danaro in prò dei poveri perseguitati calabresi, e che tutto quindi il comune allarme fosse ingiustificato. La milizia nazionale dovè correre ad armarsi, tutt' i posti di guardia dovettero essere afforzati, e le pattuglie, aumentate, cominciarono a perlustrare le vie, evitando su di queste ogni assembramento. Insomma, dopo un giorno il Romeo non si vide più in Foggia:—chissà se la polizia non ebbe a trovar mezzo di fargli prendere il largo a notte alta, ridonando così la calma a quanti, senza base, l'aveano perduta.

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