FUGGI DA FOGGIA NON PER FOGGIA MA PER I FOGGIANI ...

martedì 21 settembre 2010

CAPITOLO III

La Costituzione, coni' è noto, stabiliva dovessero  esservi due Camere, 1' una dei Pari, eletta dal sovrano, e  l'altra dei deputati, eletta dal popolo. Era d'uopo quindi che Foggia approntasse ormai la elezione della sua rappresentanza politica. Nicola Rosati, uomo di liberi sensi, rivolse, nella occasione, agli elettori foggiani e della provincia un proclama a stampa ove, indicando le norme da seguirsi nello scegliere i proprii rappresentanti alla Camera elettiva, svolse un serio e complesso programma politico, mirante, come ultimo fine, all' unità e indipendenza italiana. E, in mezzo al comune fervore per la conquista della libertà, fin dal 18 aprile '48 cominciarono a riunirsi gli elettori del Comune di Foggia nella chiesa di s. Domenico, non essendosi potuto trovare altro locale più adatto sì per contenervi un numero di circa ottocento iscritti, sì per esser quello un sito assai centrale della città. Quivi intervennero il sindaco, marchese Luigi de Luca, qual presidente provvisorio della giunta elettorale, che prese posto dietro a un largo tavolo in fondo alla chiesa, e i signori Vincenzo Celentano, Francesco Paolo Modula, Domenico de Angelis e Giovanni Battista Postiglione, in qualità di segretarii pur provvisorii , dietro a quattro tavolini diversi, mentre altri simiglianti erano regolarmente disposti in giro e in angoli appartati, destinati ad accogliere i votanti. Fattosi l'appello degli elettori, giusta le prescrizioni di legge, fu, innanzi tutto, aperta la votazione pel seggio definitivo, che, a maggioranza di voti, riesci composto dei signori can.co Pasquale Capuano, presidente, Antonio Sorrentini, Giuseppe Serrilli, Tommaso Tonti e Aurelio Mele, segretarii. A completamento del seggio definitivo, furono prescelti, con funzione di scrutatori, i due più anziani presenti nell' aula, cioè Michele Cinquepalmi e Matteo Nannarone. Le operazioni durarono più giorni, tanto che, mentre nel sabato santo il grande e universale scampanio clamava al Signore risorto, e si vide sventolare per la prima volta il labaro tricolore in cima al campanile della chiesa maggiore, dov' erano andati testé ad issarlo, tra i battimani della folla in letizia, Francesco Petrilli ed Antonio de Maria, il seggio elettorale continuava tuttavia in s. Domenico ad esercitare le sue funzioni. E dovettero poi partitamente riunirsi in Foggia tutt' i verbali dei singoli circondarii della provincia, che, per legge, dovevano essere spediti alla Giunta del capoluogo, denominata « distrettuale » ; sicché si pervenne con indefesso lavoro al cinque di maggio, quando potette procedersi allo   scrutinio  per i deputati assegnati alla provincia di Capitanata ; in seguito di che risultarono eletti, a maggioranza assoluta di voti, Giu­seppe Ricciardi e Saverio Barbarisi di Foggia, Luigi Zuppetta di Castelnuovo. Gaetano de Peppo di Lucera, Giuseppe Tor­tora di Cerignola, Giuseppe Libetta di Viesti, Ferdinando de Luca di Serracapriola e 1' arcidiacono Nicola Montuoro di Mon-tesantangelo (1). Proclamati costoro, uomini di specchiata pro­bità, di alto intelletto e di provata fede liberale, quali rappre­sentanti del popolo di Capitanata al primo Parlamento napo­letano, comunicossi loro un tal voto col massimo entusiasmo e con le più grandi speranze per V avvenire della sventurata regione.
L' apertura della Camera elettiva, già fissatasi pel primo di maggio, era stata differita al quindici dello stesso mese, per­ché i lavori elettorali non si erano potuti espletare per quel-1' epoca in tutto il regno. Intanto due degli eletti si videro venire allora in Foggia per salutare i proprii elettori ; e que­sti furono Luigi Zuppetta e Saverio Barbarisi : 1' uno, giovane avvocato e professore, pieno di vigoria e di ardimento, nato nella vicina Castelnuovo ; l'altro, vecchio venerando e nostro concittadino, ormai non abbastanza ricordato dalla postuma generazione.Chi era, che cosa avea rappresentato fino a quel momento il Zuppetta ? Lo dica egli stesso con la sua inimitabile frase incisiva e sarcastica:
« La sostanza increata piacquesi di soffiarmi un odio ir­refrenabile contro tutto ciò che sente di trasmodamento e d'in­giustizia; onde fra me e la polizia di Napoli spiccava quella corrente di simpatia che passa tra la donna e il serpente. E quando era crimenlese il parlare d'Italia, d'italiani, di gloria d'Italia, io, in fronte alla 2.a edizione della mia Metafìsica della scienza delle leggi penali (Napoli 1843), scrissi questa dedica: — Ai pochissimi italiani, caldi del sacro fuoco della vera sapienza, promotori indefessi del vero bene, custodi gelosi della vera glo­ria letteraria e politica d'Italia, sono dedicate queste pagine.— Dedica pericolosa in quel tempo e sotto quel governo ; ma la mia tempra adamantina mi autorizzava a sfidare di ogni maniera pericoli. Nella dedica io diceva essere relativamente po­chissimi gl'italiani degni di tanto nome; ed era nel vero. Og­gidì i liberali pullulano come funghi silvani, tutti si camuffano ad italiani zelantissimi, e menano più scalpore coloro che pel passato erano i più fervidi devoti del dispotismo o marcivano nella ignavia, poiché son cessati i pericoli annessi alla pro­fessione di vero italiano.
1) Nel contempo un altro illustre foggiano, Vincenzo Lanza, veniva eletto a Napoli tra' venti deputati di quella provincia.
 Quando essa apriva la via al patibolo, allo ergastolo ed allo esilio pochissimi la vagheggiavano. Ed è esilarante lo spettacolo cui oggi assistiamo ili Italia: una vera pioggia di croci di cavalieri della Corona d' Italia scende su' petti di coloro che nulla fecero perché 1" Italia si facesse, o fecero di tutto perché l'Italia non si facesse, o fanno di tutto perché l'Italia si disfacesse. È uno dei tanti miracoli della corruzione, assunta a sistema di governo ! Onde la mia esul­tanza quando il solertissimo ed istancabile cospiratore Benedetto Musolino mi comunicò la nomina di affiliato alla Giovane Italia, ed il mandato di Mazzini di cooperare alla propaganda con la pienezza delle mie forze. Una lettera dall' estero, affidata im­prudentemente alla posta, ed aperta dagli agenti di polizia in omaggio al segreto delle lettere, rese edotto il ministro della polizia generale che in Napoli ferveva la propaganda. Senza porre tempo in mezzo, s'iniziò il così detto processo della Gio­vane Italia. Vi furono implicati e più specialmente scrutati e sorvegliati l'operoso Benedetto Musolino e il degnissimo costui fratello Pasquale. Non si pretermise alcuno artifìcio per indurre i fratelli Musolino a declinare i nomi dei correi. Adescamenti, minaccie, incomprese torture dello spirito, e che so io. Tutto vano. Intanto, come Dio volle, il giudizio ebbe per finale ri­sultato l'assoluzione degli accusati. Quanto ne avesse rammarico il ministro della polizia generale è agevole il divinare. Con la condanna degli accusati egli aspirava alla gloria di aver sal­vata ancora una volta la monarchia borbonica. Inoltre, egli era convinto delle mene mazziniane, tanto che ogni giorno escla­mava: e pure la propaganda si espande'... E smanioso incitava i bracchi a fiutare senza tregua e con maggiore diligenza. Il rannuvolato ed impensierito ministro il giorno TI giugno 1843 udì una parola confortatrice. Il famigerato Nicola Barone, che era la creatura più attiva e benemerita della polizia borbonica, e di cui il popolo fece giustizia sommaria allo apparire della Carta costituzionale del 1848, chiese di a lui parlare. Come fu messo alla ministeriale presenza sì fattamente favellò : — Voi non ignorate che esiste in Napoli il giovane  professore   pri­vato di giurisprudenza Luigi Zuppetta, idolo dei suoi pur troppo numerosi discepoli, e non punto devoto alla ortodessia monar­chica. Or bene io sento la inspirazione che l'arresto di questo demagogo potrebbe dissipare le nubi. E perché voi possiate coo­nestare l'arresto, io fra tre giorni redigerò e presenterò a voi una larga esposizione di tutte le parole, di tutti gli atti, di tutte le circostanze valevoli ad indurre un ben fondato sospetto della febbrile cooperosità del giovane professore al proseletismo delle dottrine mazziniane. In seguito alla presentazione della mia dettagliata esposizione voi non dovreste indugiare a far met­tere in prigione V audace cospiratore. E metto pegno che, ap­pena verrà rinchiuso nelle prigioni di Stato, il costrutto si caverà. — Rispose il ministro : — Presentami la esposizione fra tre giorni, ed io, appoggiandomi ad essa, ordinerò incontanente l'arresto del nemico del trono. — Ma la Provvidenza non per­mise tanto scempio. La sera dello stesso giorno 27 giugno un agente di polizia, ammesso alle segrete cose del Ministero, mi palesò per filo e per segno il  tenore del colloquio tra Nicola Barone e '1 ministro. M'inculcò di lasciare Napoli la dimane, servendomi di un passaporto, che mi offriva, purché io condi­scendessi a largamente rimunerarlo dell'atto umanitario !... Ac­cettato il partito, alle ore 4 p. m. del giorno 28 giugno 1843, imbarcatomi sopra un piroscafo francese, mossi da Napoli per la terra dello esilio, lasciando nelle mani dell' eroico e sven­turato Giuseppe de Miranda di Ariano di Puglia questa lettera :
 Miei diletti discepoli,
« Quando leggerete queste linee il sole sebesio non più ri­splenderà sopra di me. La mia cattedra sarà una quercia per­cossa dalla folgore. In Napoli il pugnale dell' assassino può talvolta evitarsi; ina il pugnale, di cui V empia polizia arma la sua destra contro i filantropi cittadini, non può evitarsi giammai. Rannodate questa frase alla storia dei miei dolori !.. Vi lascio senza stringervi al seno. Ma il porgitore di questa mia ha ricevuto sul fronte il triplice bacio fraterno  che  era destinato a ciascun di voi. Parto saldo italiano,  e saldo ita­liano mi serberò. Perseguitato, non vinto. Se vinto, non domo !!
Prof. Zuppetta » (1).
Dopo proclamata la Costituzione questo ingegno potente e dalla profonda dottrina, questo patriota dall' anima candidis­sima, dal carattere integerrimo, dai costumi spartani, propu­gnatore costante di libertà e di giustizia, quest' uomo di Plutarco, come lo chiamò Antonio Tari, tornò a Napoli il 28 aprile 1848 da Malta, ov' era rimasto tutto quel tempo, traendo la sus­sistenza giornaliera dalla pubblicazione d'un primo periodico dai titolo Giù la tirannide, e poi di un secondo II vagheg­giatore delle scienze e delle lettere. Appena però pervenuto alla capitale, apprendendo le ripetute richieste fatte dal popolo na­poletano, specialmente con un' imponente dimostrazione nella fine di marzo del '48, diretta ad indurre il re ad abolire la Camera dei Pari o per lo meno a fare esercitare dalla nazione il dritto di nominarli, nonché a stabilire lo Statuto costituzio­nale sopra basi più larghe, e, sicuro che il re avrebbe sem­pre nicchiato, fino ad irrompere, in risposta, con la reazione, stabilì, con amici, di riunire cinquantamila provinciali armati sulla montagna di Monteforte e adiacenze, i quali avrebbero dovuto rimanere come in un campo di osservazione, pronti ad accorrere in Napoli nel caso che il re avesse tentato d'in­vadere la Camera dei deputati coi suoi pretoriani. E, intanto, in .vista dei continuati tumulti del popolo, invitato dal primo ministro Carlo Trova ad avere un colloquio col re per trovarvi un espediente conciliativo, Zuppetta si rifiutò, accettando in­vece un colloquio col ministro, che infatti ebbe luogo. In quel rincontro, per ovviare alle incoerenze del decreto del cinque aprile, dal quale prendeva forza di legge il programma ministeriale, pubblicato il tre dello stesso mese, e per allontanare un con­flitto, scrisse un Progetto di riforma della Costituzione, allo scopo di respingere il paragrafo 5.° del citato programma, così redatto : « Aperto che sarà il Parlamento, le due Camere, di accordo col re, avranno la facoltà di svolgere lo Statuto, massimamente in ciò che riguarda la Camera dei Pari », e pro­ponendo invece che i rappresentanti della nazione, di accordo col re, avessero la facoltà : 1." Di decidere se convenga o no conservare la Camera dei Pari ; 2.° Nell' affermativa, di deter­minare le regole fondamentali per la nomina dei Pari ; 3.° Di fare tutte le modificazioni alla Costituzione, credute necessarie per meglio assicurare la felicità della nazione. Tale progetto venne subito comunicato al re, che non volle accettarlo. E fu allora che il Zuppetta, vedendo prossima la catastrofe, partì la sera del quattro maggio per Foggia, ove ansanti lo aspet­tavano i suoi elettori.
Ma con lui o forse anche prima di lui vi giunse Saverio Barbarisi, quel generoso che, come dicemmo, nel mattino del ventisette gennaio in Napoli, cinto della fascia tricolore, si era vi­sto a capo della famosa dimostrazione che mise i brividi nelle vene di Ferdinando, e che, precedendo il carro trionfale dei disciolti prigionieri politici, allo apparire delle bandiere rosse sugli spaldi di Castel s. Elmo, gridò al popolo : « ecco il se­gnale della vittoria, i nostri nemici han paura», — quell'ardente spirito ribelle ad ogni sopruso, che quel di istesso, tra l'agi­tarsi del vessillo tricolore dalle carrozze e dai balconi in piazza s. Ferdinando, intimò alla folla di sciogliersi, esclamando : « figliuoli, a rivederci liberi domani ! »
fi) Vedi Pochi articoli e miscellanei, scelti fra i molteplici deìl'avv. Lui<ri Zuppetta, -Napoli, A. Eugenio 1886.
Villani — Cronistoria dì Foggia 

Di lui scrisse un suo contemporaneo, che preferì, per tema di una rappresaglia da parte del Borbone, nascondere il pro­prio nome sotto il pseudonimo Un italiano, e che ne porse il preciso profilo col dire:
« Saverio Barbarisi nacque a Foggia addì 30 gennaio 1780 da Giuseppe e Gaetana Verillo. Nei suoi anni del primo vivere ricevè quella educazione letteraria che in un semplice semi­nario di provincia poteva riceversi in quel tempo. Poscia indirizzò l'ingegno alle rigide discipline amministrative e forensi, e per tal guisa fecesi innanzi per tal via, che nel 1805, quando avea passato appena il quinto lustro, venne adope­rato dal governo francese alla formazione di una legge sul Tavoliere di Puglia, e si ebbe in premio la nomina a gover­natore doganale di Ravello e Scala. Nel 1808 entrò nella ma­gistratura con la nomina di giudice di pace a Barletta : nel nel 1812 fu promosso a giudice di prima istanza a Bari, e fi­nalmente nel 1° di febbraio 1819 assunse la carica di giudice di gran Corte criminale a Lecce. I suoi rapidi progressi, in quei tempi assai diversi dai nostri per la grande moralità che aveva la magistratura, sono indizio della sua imparzialità e solerzia neh" amministrazione della giustizia, ma incontrovertibile ar­gomento ne è la sua esonerazione nel 1821. Quando l'in­tendente della provincia, il famigerato Guarini, ebbe com­messo ogni maniera di soprusi e di nequizie, la Corte cri­minale (e fra i votanti vi era il Barbarisi) nel 1819 lo sottopose a giudizio. Quando, al cadere della libertà costi­tuzionale del 1820, i peggiori, che son sempre strumento necessario alle reazioni politiche, s' insignorirono della som­ma delle cose, il Guarini, non ultimo tra costoro, denun-ziò tutt' i giudici della gran Corte criminale di Lecce come carbonari, e sollecitò il governo di Ferdinando I a svellere la mala pianta ; e questi, appoggiandosi alla fede incrollabile di quell' egregio amministratore, depose i giudici dal loro ufficio. Vi è taluno di quei giudici che poscia ha venduta l'anima al governo, ed occupa oggi una delle prime cariche nella magi­stratura suprema; ma il Barbarisi si mantenne puro ed invio­lato, e, recatosi in Napoli, dalla Ruota ove dignitosamente avea seduto, passò alla bigoncia, luogo or non men dignitoso del primo, essendo il santo amore del dritto che informa i pensieri di colui che vi ascende. In tal guisa egli passò mol­tissimi anni fino al 1848, intento a procacciarsi di che vi­vere con onesti sudori. Quegli anni si dissero quieti, ma era quiete di sepolcro ; e come nella tomba il cadavere imputri­disce, così parimente il nostro sciagurato paese divenne im­mondissimo lezzo : e rettili, nati a strisciarsi sul suolo, vi ger­mogliarono in gran copia. Ma lo spirito di Dio rinnova ad ogni istante nelle viscere del creato la fiammella vitale, e quando il demone dello sconforto ha convertito in tomba gli esseri della terra, 1' angelo dei venturi destini evoca da quella tomba gli spiriti, e si genera la via dell' umana convivenza. E questi spi­riti sono evocati, che conservarono nel segreto del loro cuore la santa fiamma del bene, che custodirono nella sua purezza, come un sacro deposito, l'idea dell' avvenire, e concordi si af­faticarono ad erompere da quella tomba per sorgere ad una vita novella. E fra questi spiriti vuoisi noverare Saverio Bar­barisi, che caldi affetti nutrì sempre per il miglioramento ci­vile del suo paese, anche quando la tirannide, fatta forte della sua vittoria, insaziabile come la lupa di Dante, addestrandosi negli arcani delle coscienze, forzava gli animi ad esser muti con sé stessi, perché il segreto desiderio non   venisse  punto trapelato. E quando il soffio della novella vita spirò per le con­trade italiane, quando moltitudini, sorgenti nel nome santo di Dio, chiesero libertà, quando questo generoso popolo napole­tano il 27 gennaio del 1848, parlando la parola del diritto, chiese inerme al suo principe la garantia giuridica di una Costitu­zione monarchica rappresentativa, Saverio Barbarisi, il carbo­naro del 1821, che aveva alimentato, in una coi suoi compagni, quel santo alito di libertà nei giovani petti, fu tra i  primi, benché vecchio e affralito dagli anni, ad inanimire i suoi con­cittadini, e, col coraggio della giovinezza, levò il grido della libertà costituzionale, salutando l'aurora del nuovo giorno. Ma fin da quando fu data la Costituzione, dal 29 gennaio, la pa­rola che pronunciò il Barbarisi fu quella della moderazione, perocché vide soverchi tripudii, baldanza eccessiva, puerilità senza pari, vide che una moltitudine cieca sforzavasi a far sì che il popolo napoletano rassomigliasse al proprio emblema del cavallo, indocile ad ogni freno. Ma la moderazione di Bar­barisi non era simile alla viltà di coloro che, vedendo 1' uomo annegarsi, non si slanci a difenderlo dall'onda;  la  modera­zione di Barbarisi fu diversa dalla inerte e codarda quiete di molti, cagione unica di ogni nostro travaglio. Egli cercò tutti modi perché si formasse un' adunanza di pochi   cittadini de­voti alle novelle instituzioni con poteri pieni ed eccezionali per antivenire ogni turbamento alla pubblica quiete. Quel vecchio bene intendeva che se il movimento popolare è necessario a conquistare la libertà, condizione indispensabile a conservarla è il mantenimento dell' ordine ; quel vecchio ben comprendeva che nei momenti difficili e pericolosi dello introducimento di un novello sistema, che ha tanti nemici, quanti son coloro che profittarono del passato, non si può far senza di provvedimenti eccezionali e rigidi che preparino 1' attuazione di un avvenire migliore. Ma il suo pensiero non venne accolto : ed   il Mini­stero di quel tempo, credendolo uno dei molti che chiedevano impiego, lo nominò giudice criminale : ma egli ricusò quel po­sto come colui che desiderava la libertà, non il potere, il publico bene, non il lucro privato. Alla sua novella richiesta per la nomina di una Commissione suprema di Stato, il ministro Bozzelli credette di appagare il Barbarisi, nominandolo com­missario di polizia, quasi che colui, che aveva ricusato 1' uf­ficio di giudice, avesse avuto poi vaghezza d'indossare una di­visa odiata ed abborrita. Pure il vecchio onorando pensò che potesse essere di giovamento la voce della canizie, che insi­nuava a tranquillità e moderazione, pensò che la polizia co­stituzionale avrebbe dovuta divenire una istituzione accetta al paese quando uomini rivestiti della pubblica fiducia la rap­presentassero ; pensò che il fango del vecchio sistema non potea giungere a contaminarlo, ed accettò 1' ufficio di commis­sario di polizia del quartiere di Montecalvario, ricusandone lo stipendio (1). Ed operosamente si sforzò a mantenere tranquilli gli animi il più che si poteva e, sopra tutto, esortava di con­tinuo a più moderata condotta una mano di giovani studenti che, raccolta nella bottega da caffè sotto il palazzo Buono in via Toledo, e, sollevata da parecchi malvagi, erasi data a po­liticare, e vagava in dimostrazioni ed animate discussioni, nel che fare affrontò coraggiosamente gì' impulsi e le minaccie di quella schiera di giovani traviati, ma innocenti (perché la gio­ventù non può essere maligna) ; e se V onda degli eventi tra­volgeva i suoi sforzi come il torrente trascina dietro di sé qua­lunque cosa trovi per via, pure non è a tacere che i suoi sforzi furono commendevoli, perché tutto egli fece quanto era in suo potere per salvare la patria pericolante. Nella sua provincia pervenne intanto la fama della sua devozione agi' instituti po­polari, onde nella medesima ed in quella di Bari, ov' era stato magistrato, il suffragio elettorale lo prescelse a deputato del Parlamento. Ed egli alla voce del paese, che affìdavagli il santo mandato di rappresentare i suoi diritti, ricusò F ufficio di com­missario di polizia. Ma Carlo Troya, capo del Ministero in quel tempo, veniva di continuo ragguagliato di disordini che mo­lestavano la Paglia, e sospettava perciò che ivi si alimentas­sero sentimenti di repubblica e di comunismo. Pensò egli al­lora d'inviarvi un uomo, che, godendo la fiducia del popolo, potesse raddrizzare le opinioni, insinuare la legalità negli ani­mi, e sviare ogni pensiero di repubblica e di comunismo. E a tal' uopo elesse il Barbarisi come quegli che godeasi la fi­ducia della Puglia ed erasi in Napoli mostrato, con fatti inop­pugnabili, l'uomo delle istituzioni costituzionali. Il Barbarisi accettò quel difficile carico, diffìcilissimo per la condizione dei tempi, dopo molte istanze del Troya, e lo adempì scrupolosa­mente ecc. ».
(1) II Barbarisi. in quella occasione, volle rendere pubblico ringraziamento al sovrano per una tale nomina, il 16 marzo 1848, con un folio a stampa pei tipi all'insegna del Digione, e sotto il titolo : Parole dell' aevocato Saverio Barbarisi per la sua nomina a commissario di polizia di prima classe, ringraziamento che terminava con queste parole ben gravi: «Quando l'inquisizione attuale degli avvenimenti, clip lianno avuto luogo da lunedì passato in poi, sarà livellata ai fatti, vedrà V. M. se la gioventù o la tristezza di taluni agenti segreti, immorali, nemici di Dio e della nazione, abbia i disordini pro­mossi. Prudenza è prevenire gli avvenimenti; e chi non si mette nel caso di regolare la rivoluzione, sarà dalla rivoluzione trascinato o il voglia o non lo voglia. Se i veri bi­sogni dei popoli, se i loro desiderii si fossero valutati e secondati, disordini non vi sa­rebbero stati, le tante disgrazie non si sarebbero vedute, e '! tanto sangue cristiano non si sarebbe sparso ».
E, dopo questa duplice presentazione, eccoli tra i comuni elettori di Foggia Luigi Zuppetta e Saverio Barbarisi, due schietti liberali entrambi, ma, com" è chiaro, di gradazione af­fatto diversa: 1'uno, potrebbe dirsi, rappresentava l'elemento impulsivo rivoluzionario senz' alcun limite, la sbuffante loco­motiva a tutto vapore, l'altro il freno moderatore.
Accolto nella nostra città dal delirio di un popolo, come non mai alcuno venne per lo innanzi accolto, Luigi Zuppetta, da Foggia, ove sarebbe presto ritornato, continuò per Lucera e per la sua Castelnuovo, ove volle riabbracciare i congiunti dopo tanti anni di esilio, rimanendo colà appena tre ore.
Saverio Barbarisi, per contrario, era in Foggia da qual­che giorno, avendo preso stanza dapprima nell' albergo Apicella, sulla piazza del teatro, e poi passando in casa del suo amico Bartolomeo Iacuzio, consigliere della gran Corte civile, casa che, a quell’ epoca, trovavasi affatto vuota per l'assenza di costui. Egli avea già visti i maggiorenti della città e del partito liberale, che gli avevano fatto intorno grande festa, ed aveva cementato ancora più nei loro animi, mercé la sua figura se­rena e la sua parola limpida e calda, l'antico, profondo affetto. E parlò ai suoi elettori la parola franca e sincera del con­vinto liberale, eccitandoli ad attaccarsi ferreamente alle libere istituzioni monarchiche rappresentative come all'unico faro di salute per l'avvenire della patria comune.
E là, nella casa di Agnello Iacuzio, ove Gaetana Facci-longo, la sua degna compagna, aveva accolti nei giorni delle sette e delle sventure, come accoglieva tuttora, gli amici di suo marito quali fratelli, scaldando la sua anima gentile di don­na alle idee più ardenti e bellicose senza impaurirsi di possibili compromissioni, e imitando così le più grandi eroine del no­stro risorgimento, che non temettero la bipenne del carnefice, pur di pronunziare il santo nome di libertà e di patria,— nella casa di Agnello Iacuzio, dicevo, Luigi Zuppetta rivolse la prima volta, al ritorno da Castelnuovo, la sua parola tribunizia agli elettori foggiani. Quivi egli volle aprirne le menti, spiegando, fra l'altro, che cosa dovesse per davvero suonare la frase svol­gere lo Statuto, ch'era una facoltà già ottenutasi dal programma ministeriale del tre aprile, e che significava 'modificare, riforma­re ed anche rifare da capo a fondo. E in uno dei punti del suo magnifico discorso, a più facilmente essere compreso dagl'in­telletti poco elevati, cacciò di tasca una pezzuola, e, sogghi­gnando, disse : « Svolgere lo Statuto non significa certamente lo stesso che svolgere questa pezzuola, ma aggiungervi altresì larghe franchigie, che dal Parlamento si crederanno opportune. E le migliori franchigie sono allora possibili quando la mo-narchia sia non più ereditaria, ma elettiva, o si formi presso di noi lo stato popolare ». A tale scatto impreveduto e inaspet­tato l'uditorio come un sol'uomo, tra frenetici applausi, giurò di sostenere, all'occasione, anche con le armi le proposte che avreb­bero fatte alla Camera i deputati, cervello e cuore del Paese. Tra i liberali foggiani, ivi presenti, si notavano, in prima linea, Agnello Iacuzio, Francesco Paolo Vitale, Giovanni de Anellis, Michele Ricca, Carmine Durante, Felice Patierno, Luigi de Noia, Michele Achille Bianchi, Vincenzo Luigi Baculo, Ni­cola Sanna, Scipione Cafarelli, Vincenzo Barbarisi, GaetanoTan-zi, Raffaele Mirasole, Domenicantonio Berardi, Vincenzo Russo, Orazio Sorge, Luca Pece, Vincenzo Petrilli, Nicola Mancini, Pietro de Piato e Gabriele Cicella, — 1' ardimentoso scolopio, che non si era sgomentato, giorni prima, di accendere, dal pulpito della chiesa di s. Gaetano, i fedeli a liberi sensi, e di spiegar loro, con vividi colori, le finalità vere della Costituzione ; quel Gabriele Cicella, che, dall' arringo passato ali' azione, avea di già affa-sciati tra loro tutt' i parroci della città e fondata con essi una setta politico-religiosa sotto il nome di san Giovanni Battista. Si stabilì allora di fornire di buone armi e di munizioni non solo la guardia nazionale, ma anche i privati, perché tutti, indistin­tamente, dovevano essere, in casi estremi, paladini di libertà.
Della esecuzione di questo deliberato ebbe incarico speciale 1' avvocato Michele Ricca, come colui che affidava per attività ed energia veramente singolari.
Queste idee avanzate si sparsero per la provincia intera con la celerilà di un torrente in piena, anche perché correva già per le mani di tutti, da più giorni, un opuscolo incendioso dello stesso Zuppetta dal titolo Le sette contraddizioni capitali della Costituzione data da Ferdinando, e che ne avea già scombussolate le menti. Non ci fu paesello, allora, già stre­mato dalla miseria, dalla fame, dai balzelli e dai soprusi di ogni genere, che non avesse nell'idea di una libertà sconfinata, che taluni confusero, senza fors' anche volerlo o saperlo, con la repubblica, non dico imitato, ma anche preceduto il capo-luogo, e non fosse già pronto a levarsi in arme aneli' esso per propugnarne, ad un dato momento, il trionfo. Agnello lacuzio, d'altra parte, il supremo animatore del comitato, era in con­tinuo e febbrile contatto coi rivoluzionarii delle altre provincie, ed aveva all'uopo già presi opportuni accordi per un'azione comune e decisiva. Tanto è ciò vero, che il tredici maggio '48, quando venne arrestato, in San Lupo, Antonio Romano Moz­zicone, l'energico settario, già condannato ai ferri dalla Corte criminale di Campobasso, furono trovate nelle tasche di costui tre lettere scritte e sottoscritte da uno dei più solerti cospi­ratori, Raffaele Crispino, cancelliere del giudicato regio di Colle, posteriormente punito nel capo dalla Corte speciale di Napoli, una delle quali era diretta appunto ad Agnello facuzio, cui non potè essere ricapitata. In questa gli si accludeva un pro­clama a stampa, edito da Giuseppe Bardano, capo di un co­mitato segreto partenopeo e presidente il circolo del Progresso, sito in Napoli alla salita Magnocavallo, che, già affisso altrove, spronava i deputati, in nome del popolo e della nazione na­poletana, a riformare democraticamente la Carta costituzionale, e finiva con 1' avvisare che se il potere esecutivo non facesse senno, e, se nel mettere in atto la nuova Costituzione, usasse le solite infamie di governo, il popolo sarebbe andato più in­nanzi ancora, ricordandosi che desso è sovrano. E la lettera di accompagnamento al lacuzio, per non destar sospetti, in caso di scoperta, era concepita anfibologicamente così :


Carissimo amico D. Agnello,

Di replica alla vostra risposta, comunicatami per mezzo del comune amico D. Gaetano de Peppo, vi prego caldamente di preparare tutto l’occorrente per dar compimento alla stipula finale del nostro istrumento. Vi prego per amor di Dio a non trascurare cosa alcuna per non perdere la preziosa occasione di rialzare energicamente i nostri interessi. Il giorno della stipula vi sarà designato da me o dal signor D. Antonio To-ricelli. Vi raccomando il latore della presente Giuseppe Lepre di Benevento, il quale si reca costà per guadagnare un car­lino. Resto abbracciandovi con tutti gli amici e sono

Napoli, 3 maggio 1848.

R. Crispino.

Corrispondenza, che la Corte speciale di Napoli, occupan­dosi, nel processo pei fatti del quindici maggio, della sorte del Crispino, chiamò « rea », appunto perché piena di frasi metaforiche, che disvelavano, in confronto di un folio di norma emesso dal circolo del Progresso, una perfetta coincidenza, rivelatrice delle mene della cospirazione, di cui compartecipe veniva estimato il nostro Agnello lacuzio (1). Invano il gior­nale delle Due Sicilie si affaticava a ripubblicare e a rendere universali le saporifere circolari dei sotto-intendenti, sperando così di calmare le nevrotiche masse, che il bromuro, gittato anche a quintali tra le schiere dei rivoluzionarii, non avrebbe potuto più produrre l'effetto che le autorità si proponevano. La notte del 9 maggio '48 Saverio Barbarisi lasciò Foggia e partì alla volta di Bari, mentre Luigi Zuppetta, che contempora­neamente avea fatta, il mattino, una corsa a Lucera, tornò la sera a Foggia, ove volle novellamente parlare agli elettori nella casa del notaio Michele Rispoli. E parlò da par suo intorno alle finalità vere della Costituzione, esaminata nella sua più ampia essenza ; e dischiuse loro, tutto il suo pensiero, mani­festando persino di avere prove ineluttabili che il re di Napoli cospirasse con l'ambasciata austriaca, frattanto che i più fer­venti liberali fidavano, sicuri, nelle promesse di lui.

(1) Vedi nelle due Decisioni della Corte speciale di Napoli dell' 8 ottobre 1852 e del 20 agosto 1853, pubblicate dalla stamperia del Fibreno.

Ei quasi profetizzava che se non si fosse curato di opporvi in tempo un riparo qualsiasi, da un istante all’ altro i liberali si sarebbero trovati miseramente in catene. Qui si tacque. Ma a coloro che mostrarono di voler sapere quale argine potesse di­fenderli dalla marea incalzante e micidiale, ei si limitò a ri­spondere : « Ancora due giorni e vi aprirò la mente », risposta che rimase sempre un enigma pei foggiani, i quali ignoravano il suo progetto dei cinquantamila armati su Monteforte, pro­getto che poi non riuscì ad attuarsi per il mancato consenso degli uomini influenti delle provincie meridionali.
E mentre la parola calda e scultoria di questo cavaliere senza macchia e senza paura eccitava, quasi tutte le sere, gli animi dei foggiani, pervenne in quella città, da Cerignola, il novello segretario generale dell' intendenza di Capitanata, Girolamo Fuccilo, già consigliere d'intendenza di Basilicata. Egli, in assenza del nuovo intendente, il quale non ancora si era fatto vivo, trovossi ad assumere le funzioni di capo della pro­vincia ; e, in mezzo a tanto fermento, che aumentava ad ogni passo e che facea prevedere brutti giorni di lotte, egli, ignaro del luogo, si vide in serio imbarazzo dal primo dì, e non seppe trovar modo di stringere i freni con qualche garbo per evitare un pubblica disastro. Ma il dodici di maggio, già partito per Napoli il Zuppetta, scampato per un miracolo da un massacro in Grottaminarda ad opera di fanatici ignoranti, cui si fece credere per lo meno ch' egli avesse bandito in Foggia il co­munismo, tornò in questa città Saverio Barbarisi, dopo di essere stato a Lecce, a Bari, a Barletta, a Trani, a Giovinazzo, a Cerignola, ove aveva tutti entusiasmati con l'inneggiare alla conquistata libertà, inoculando ad un tempo in ognuno la fede illimitata nelle istituzioni rappresentative monarchiche per l'av­venire salutare della patria, e tornò per trattenersi coi suoi elettori anche un altro giorno solo, dopo di che avrebbe anch' egli continuato il viaggio per Napoli a causa dell' immi­nente apertura del Parlamento, il Fuccilo, in vista degli animi concitati di buona parte della provincia e del panico che aveva invasi i timidi, sbarrati nelle loro case con i conigli in corpo, tentò di serrare il pugno ad oltranza, convocando ali' uopo, per gli urgenti provvedimenti, il Consiglio di pubblica sicu­rezza, da poco instituito, ed anche già in parte modificato nei suoi membri dopo i clamori per Tibi. Oltre che il Fuccilo fece mostra di un apparato di forze, da far credere che si fosse dav­vero alla vigilia delle barricate. Il Barbarisi, non appena riveduti i suoi amici, apprese da loro la paura che aveva invaso il Fuccilo, nonché i suoi preparativi di difesa o di violenze ; e, fedele al suo antico giudizio che F autorità avrebbe dovuto nelle presenti congiunture, ad evitare disordini, non inasprire vie più gli animi, ma saggiamente carezzarli e secondarli in certo modo per poter riescire a reprimerli con sicura efficacia, sorrise del sistema adottato da quel funzionario, come delle apprensioni di lui, e volle andare perciò di persona a vederlo nella sede dell' intendenza.
Di parecchi tristi, intanto, chi avea sobillato ad arte che il Barbarisi fosse addirittura una spia del re e che desiderasse una strepitosa reazione di palazzo, chi avea fatto credere in­vece allo stesso Fuccilo, spaventato al novello apparire di lui come di uomo tornato dall' antro di Trofonio, eh' egli andasse invece sollevando le Puglie, corrompendo fmanco il carattere degli stessi uomini pubblici con gl'identici propositi del Zup­petta, ratificati da lui medesimo, coram populo, anche in Fog­gia a note ben chiare e scevre di sottintesi. Di modo che in quei momenti di grossolane precauzioni poliziesche, senza essersi provato quale granito fosse stato liquefatto da lui, quale Margherita sedotta con monili di gemme o qual Fausto per­suaso a scrivere col sangue il patto di vendersi 1' anima, lo si mise quasi al pericolo di subire delle sopraffazioni. Ma, ad onta di ciò, ripeto, il Barbarisi si presentò al Fuccilo, e, spoglio d'infingimenti o d'ipocrisie, ma con baldanza che scaturiva gigante dalle sue profonde convinzioni, gli disse che ormai la rivoluzione, per un maggiore miglioramento delle istituzioni liberali, non poteva più evitarsi, e che il secondarla sarebbe stato un dovere da parte dell' autorità politica, se non si fosse voluto, col soffocarla, un inutile spargimento di san­gue. Solo così il regime costituzionale avrebbe ottenuta la sua vera fisonomia, altrimenti ogni altra idea sovversiva sarebbe stata alimentata dalle stesse intemperanze di chi pretendeva sopprimerla. Ei domandava, perciò, al custode dell' ordine pub­blico, ali' intendente di Foggia ogni suo concorso, sia pur ne­gativo, per non veder manomesse senza scopo la libertà e la vita dei cittadini. E in ciò dire la sua voce atteggiossi ora a suono di preghiera, ora a quello di minaccia. Il Fuccilo, traendo coraggio dal pericolo, tenne duro, e non si allontanò d'un passo dal suo programma ; che anzi invitò il Barbarisi a par­tir presto per Napoli, ove appunto avrebbe potuto nella Ca­mera, meglio che in altro luogo, esplicare in vantaggio delle masse ogni idea di perfezionamento della Costituzione.
Il Barbarisi la sera stessa lasciò Foggia, che non riprese, perciò, l'antica calma, ma che continuò ad agitarsi, ora pale­semente, ora latentemente, secondo che le repressioni più o meno violenti dell' autorità politica glielo permettevano, auto­rità che non lasciò mai di credere, e con lui moltissimi altri, che si fosse potuto in Foggia, prima del quindici maggio, verificare un serio scoppio rivoluzionario, tendente alla procla­mazione della repubblica.

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3 commenti:

  1. sono un pronipote di Fuccilo

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  2. Quando alla fine della storia si cita il Fuccilo,ff intendente nel 1848, giustiziato xchè carbonaro, desidererei sapere il prosieguo..

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  3. Rispondere eventualmente a nicolino-47 @ libero.it.

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