FUGGI DA FOGGIA NON PER FOGGIA MA PER I FOGGIANI ...

martedì 21 settembre 2010

CAPITOLO IV

La Capitanata, a consiglio dei più saggi, aspettò fidente, ma con 1' arma al piede, il risultato dell' opera dei suoi depu­tati, i quali, fin dal primo istante di loro esplicazione, si mo­strarono all' altezza del mandato ricevuto, e non furono per­ciò da meno dei loro colleghi per valore, per disinteresse, per energia. Fin dal 12 maggio '48, infatti, 1' on. Ferdinando de Luca di Serracapriola si era agitato non poco tra coloro che intervennero in Napoli a casa dell' illustre medico foggiano e noto liberale anch' egli, che sfidava imperterrito la ghigliottina, Vincenzo Lanza, quando, cedutasi a costui la presidenza del1' adunanza dall' ottuagenario arcidiacono Luca Samuele Cagnazzi, si prese a discutere vivacemente intorno alla voce corsa che si volesse dal re imporre alle Camere giuramento di os­servanza puro e semplice allo Statuto del 10 febbraio, soppri­mendo il già concesso svolgimento. Il de Luca si scagliò con gli altri e forse più degli altri contro la possibilità d' un tal fatto, che dimostrava la poca lealtà del re e un primo accenno a un colpo di Stato ; e venne incaricato coi deputati Mancini, Cacace ed Orlale di presentarsi al Consiglio dei ministri per ottenere che il programma, destinato a pubblicarsi, fosse di­spogliato di ogni pretesto di dissidii, e che la prestazione del giuramento fosse rinviata ad un tempo posteriore alla verifica dei poteri. Ma fu tratto in inganno anch' egli, il nostro de Luca, con tutta la rappresentanza nazionale, perché com' è noto, mentre il ministro, dalla doppia faccia come le stoffe inglesi, avea fatte le viste di trovar giusta la proposta, richiamando all' uopo dalla tipografia gli stamponi del programma per cor­reggerli in tal senso, la mattina del quattordici maggio esso fu trovato integralmente immutato, per la qual cosa si acuì in ognuno il sospetto già surto d' un colpo di Stato. E in quella stessa malaugurata sera, allorché un' immensa calca di popolo si raccolse davanti al palazzo di Monteoliveto e gridò reiterate volte : « Deputati, il re tradisce la nazione, il re v' insidia ; ma non temete ; coraggio, coraggio ! noi siamo qui per la vostra difesa », il deputato Luigi Zuppetta si fece tosto ad uno di quei balconi, e rivolse al popolo le seguenti parole, che i posteri ricorderanno con venerazione per chi le pronunziava : « Cittadini, tranquillatevi intorno al contegno dei deputati. I rappresentanti della nazione, o almeno quelli che sono degni di tal nome, non hanno bisogno di essere incoraggiati per lo adempimento dei proprii doveri. Essi diventeranno cadaveri prima di cedere alle pretese del re ». E la notte del quattor­dici, nell" aula medesima di Monteoliveto, quando dopo infi­nite discussioni intorno alla formola del giuramento da prestarsi dalle Camere, e dopo un via vai di messaggi, scambiatisi inutilmente tra i deputati e il re, per adottarsi formole diverse, Ferdinando di Borbone strappavasi la maschera dal viso, or­dinando ai suoi croati di uscire dai quartieri, al che il popolo, indignato, improvvisò la prima barricata in quelle vicinanze per difendere la rappresentanza nazionale, fu Saverio Barbarisi destinato col Lanza, col Romeo, col Capocci, col Galletti e con Spaventa a parlare al popolo. Egli, più che altri, eser­citava su di questo la più grande ascendenza, e lo avrebbe indotto senz' altro a disfare la prima barricata e le altre susse­guenti per non compromettere le sorti della Costituzione, es­sendosi allora allora ottenuto, mercé la loro fermezza, che si aprisse il Parlamento col solo discorso della Corona e senza il giuramento, se il La Cecilia ed altri repubblicani non aves­sero soffiato sul fuoco. Ma era già troppo tardi in opporsi al divampare dell' incendio. Per lo che fu allora che Luigi Zupetta, quell' animo fiero ed inflessibile, volendo profittare dell’ entusiasmo popolare del momento, presentava,  invece, alla Camera questa proposta ardimentosa, contenente l’ implicita e necessaria decadenza della dinastia :
« Onorevoli deputati ! A vista degli avvenimenti incalzanti, io v' invito a prendere la seguente deliberazione. — La Camera dei deputati della nazione, veduta la formola di giu­ramento inviata dalla Camera al Ministero ad effetto di provocarne l'adesione del re ; — veduta la formola di giu­ramento inviata dal re alla Camera , formola diametral­mente opposta a quella reclamata dallo Statuto costituzionale, dall' unanime consenso dei deputati e dal voto di tutta quanta la nazione;—considerando che niun'altra formola di giuramento possa essere razionalmente sostituita a quella proposta dalla Camera dei deputati ; — che le capziosità del re tendano a precipitare la nazione nell' anarchia e nel sangue ; — che il rifiuto del re all' adesione ad un atto in perfetta armonia coi principii dello Statuto costituzionale obblighi la Camera alla pratica di doveri analoghi alla urgenza della situazione ed alla salvezza della patria; delibera: 1.° non potersi per niun conto accettare la formola del giuramento inviata dal re alla Ca­mera;— 2.° tenersi il rifiuto dei re all'adesione alla formola del giuramento proposta dalla Camera come una flagrante in­frazione allo Statuto costituzionale ; — 3.° voler neutralizzare le mene insidiose del re col tenersi riunito il Parlamento in virtù del solo mandato della nazione, fonte e principio di ogni sorta di potere ». Quale proposta, respinta a grandissima maggio­ranza dai deputati, in grazia, coni' egli stesso ebbe a riferire in un suo scritto, degli sforzi riuniti dei così detti moderati, di cui uno lo apostrofò financo, chiamando quella sua propo­sta un degno parto del Robespierre redivivo. Ma, in seguito a tale rigetto, il Zuppetta non si arrese, e a notte alta compilò altra proposta più audace, che fu questa :
« Onorevoli deputati ! V invito a deliberare : — Prima del1'alba i deputati delle provincie usciranno, uno dopo l'altro, da questa sala ; e, prese le debite cautele, ciascuno si recherà nella rispettiva provincia e chiamerà sotto le armi le milizie civiche ». Naturalmente anche questa proposta non si vide co­ronata da successo.
E il quindici maggio, quando il cannone già batteva in breccia le barricate sulle vie di Napoli, e gli svizzeri, strumenti di viltà e di vendetta, scannavano centinaia d'innocenti, che non commisero altra colpa se non quella di voler vedere garentita la data Costituzione, tra cui non sarà mai troppo ricordare un Luigi La Vista, un Angelo Santilli, un Gustavo Mor­billo, rimasero tutti impassibili e fermi al posto, che il dovere e l'onore loro prescrivevano, i deputati di Capitanata, al pari de­gli altri colleghi, nell' aula di Monteoliveto, presieduti dall' ot­tuagenario arciprete Cagnazzi, attendendo, come i vecchi sena­tori romani ai tempi remoti di Brenno, che si compisse an­che contro di loro 1' opera nefanda di sangue, felici di esporsi al martirio per la patria, che veramente, e non per posa, adoravano. Che anzi Luigi Zuppetta. scorgendo su di un tavolo due palle di cannone, raccolte presso il palazzo di Monteoliveto, e, memore degli sforzi fatti dai moderati, la sera precedente, nel combattere le sue proposte, ne afferrò una con con­vulsivo furore, anzi levandola in alto : « ecco — esclamò — in qual guisa re Ferdinando risponde alle promesse fatte al po­polo ed alle proposte dei rappresentanti della nazione !.. Deputati moderati, ecco il frutto della moderazione spiegata verso il leale vostro re !» E in quell'ora solenne, in cui consumavasi il più alto tradimento da parte del Borbone, che fu perciò ad­ditato quale pubblico nemico, fu lanciata virilmente da un al­tro nostro deputato, Giuseppe Ricciardi, e votata la mozione di eleggersi un comitato di sicurezza pubblica con pieni po­teri, composto del marchese Topputi, presidente, e di Vincenzo Lanza, Gaetano Giardini, Gennaro Bellelli e Ferdinando Petruccelli, i quali, mentre spedirono parlamentarii al generale comandante la piazza, nonché ai ministri per scongiurare un'atrocità senza precedenti, delegarono il nostro Ricciardi a condursi dall' ammiraglio Baudin, comandante la flotta della re­pubblica francese, ancorata nel porto, per incitarlo a difen­dere e salvare Napoli dalla guerra civile. E tutti, senza ecce­zione e senza tentennamenti, i nostri deputati di Capitanata apposero la loro firma, tra le sessantasei, alla celebre protesta dettata da Pasquale Stanislao Mancini, di fronte alla nazione, all' Italia intera, all' Europa, quando, circondato il palazzo di Monteoliveto da truppe e da cannoni, un ufficiale venne ad intimare all' assemblea di sciogliersi, — protesta fieramente consegnata a costui, in vista del sicuro trionfo della reazione, dal vegliardo presidente di codesto pugno di eroi. Tutti tutti sfidarono così il Borbone, che av'ea voluto compiere la più atroce delle vendette contro quanti avevano osato di porre una mano sacrilega sulla Carta statutaria, che avea biblicamente e ciecamente chiamata, con frase bozzelliana, l'arca santa dei diritti del popolo e della Corona.
1 liberali foggiani, che aspettavano di apprendere il risultato dei primi attacchi da parte dei deputati alla Camera in­torno allo svolgimento dello Statuto, parvero si smagassero un poco, quando, verso il tramonto, mercé un telegramma avutosi da Napoli, seppesi seccamente che l'apertura della Camera era stata aggiornata. Che cosa era avvenuto ? Quale ragione avea potuto indurre un tale provvedimento ? Essi nulla seppero af­fatto indovinare ; e vissero parecchio nell' ignoranza, nell' in­certezza e nel mistero, non essendo, per giunta, arrivata quel dì la messaggiera postale, pel cui tramite sarebbero potuto pervenire notizie esaurienti e sicure. Poco dopo si annunzio che il telegrafo ad asta non funzionava più lungo la via ; e sospettossi che il guasto fosse causato dalla mano de' reazio­narii. Ed ecco, per conseguenza, uno spunto di panico nella cittadinanza, di cui vollero profittare i più audaci per intorbidare le acque e mettere le autorità in iscompiglio. Insomma vi fu un pandemonio tale che il ff. intendente Fuccilo stava per dare il capo nel muro, non sapendo come frenare e disper­dere sobillazioni e preoccupazioni. Pensò egli inconsiderata­mente, preso da vero sgomento, di chiamare sotto le armi la guardia nazionale e di trattenere in città un battaglione di fan­teria che era diretto a Bari; — dico inconsideratamente, perché bastava un nonnulla per dar valore alle notizie di una possibile reazione, che andavansi buccinando; e il subitaneo apparato di forze, infatti, accrebbe in tutti 1' allarme. Alla intendenza chiunque si propose di andare a chiedere informazioni sullo stato reale delle cose non trovò chi non gli facesse spallucce; e così il sospetto di gravi avvenimenti, che si volessero tener celati ad ogni costo, pigliava in ognuno maggior forza e con­sistenza. E per due giorni interi, due lunghissimi giorni, si rimase in fitta tenebra, perché nulla di nulla venne mai a sapersi da chicchessia. Si giunse così al diciassette di maggio, quando si cominciarono ad avere i primi vaghi accenni delle turpitudini compiutesi per le vie di Napoli. Infatti il corriere postale, che dovea giungere a Foggia la sera innanzi e che, invece, venne la mattina a tarda ora, recò la meschinità di  sole tre  lettere, e fece parola, evasivamente, di un fatto d' arme consumatosi tra la guardia nazionale e la truppa, nonché d'un fuoco ben nudrito, durato per ventiquattr' ore, anche per parte del popolo, durante le quali vi erano state molte vittime, ma senza accennarne le cause. Soggiungeva che la messaggiera, oltre di essere partita il mattino avanti, anzi che la sera secondo il solito, avea dovuto passare sopra mucchi di cadaveri pesti e nudi, perché i lazzari, quasi mossi da subitanea furia di cannibalismo, ne aveano fatto tri­ste governo, portandone via anche le vesti. Una tale notizia mentre funestò tutti, non mise alcuno in condizione di sapersi dar ragione di sì grossa carneficina. Né all' intendenza, né al municipio si era in grado di darne un centello di più per ammorzarne la grande e giusta sete di curiosità, tanto che Fuccilo avea spedita ali' uopo una staffetta sino ad Ariano, e si vide costretto di fare affiggere un avviso a stampa, col quale, invitando tutti a mostrarsi tranquilli, prometteva di comuni­care senza riserve alla cittadinanza le prime ed ulteriori noti­zie che avrebbe ricevute. Ma ogni minimo particolare si potette apprendere la sera appresso, quando col parteciparsi ufficial­mente il decreto di nomina del nuovo Ministero Cariati, in cui tornava ministro per lo interno il Bozzelli, nonché quelli di liquidazione e di disarmo della guardia nazionale, e del discioglimento della stessa Camera dei deputati, pervennero molte lettere di parenti e di amici a private famiglie, come del pari giunsero parecchi viaggiatori, testimoni oculari della strage, che il recente gabinetto, con la pubblicazione del suo programma di governo, cinicamente deplorava, comunicando all'uopo il dolore del re (!).
Non puossi immaginare quale cordoglio, misto ad indigna­zione, ebbe a provare Foggia intera, in tutte le sue gradazioni sociali, tanto che una moltitudine non mai vista si assembrò, rapidamente, col viso d'arme sotto il palazzo dell' intenden­za, quasi minacciando anch' essa le barricate. Ma il ff. inten­dente Fuccilo, il maggiore del 7.° battaglione dei caccia­tori, giunto allora allora pel buon' ordine, i consiglieri d'inten­denza e alquanti notabili della città, tra' quali primeggiava, pei suoi modi cortesi e persuasivi, il signor Giuseppe Libetta, si adoperarono in ogni guisa a calmare gli animi di tutti, pur troppo frementi, per evitare una rivolta sanguinosa. Lo stesso Fuccilo, con un manifesto a stampa, mentre rendeva noti, secondo avea promesso, i fatti dolorosi svoltisi il quindici di maggio alla capitale, raccomandava al buon popolo foggiano di non turbare l'ordine pubblico, e di mostrarsi ossequiente, come sempre, alle leggi. Chiedeva in quest' opera di pace il concorso dei buoni e di quanti si dichiaravano liberali e ligi alla Costituzione, potendo essere tutti fiduciosi nelle buone di­sposizioni del re verso il paese.
Il comitato liberale si riuniva, intanto, la sera del dician­nove maggio in una sala del padiglione di s. Domenico. Quivi si tenne una vivace discussione sul da farsi, in vista della gravezza del momento, e si stabilì di nominare un sotto-comitato, composto da Giuseppe Libetta, presidente, che, in una seconda riunione, fu sostituito, dopo miglior consiglio, da Agnello Iacuzio, e, quali vicepresidenti, dal marchese Luigi de Luca e da Lorenzo Trabucco, nonché da Vincenzo Celentano, da Pietro de Piato e da Vincenzo Barbarisi, segretarii, per tentare la proclamazione di un governo provvisorio, e, contemporanea­mente, di sguinzagliare messaggi a Napoli e nelle altre provincie per un' azione concorde, riunendo all'uopo, tra i presenti, la somma di ducati trecento, che fu depositata, a quanto vuoisi, presso quel ricevitore Carmine de Martino. I fautori più accaniti per la proclamazione del governo provvisorio si mostravano Gaetano Tanzi, Giuseppe Garofalo e Giuseppe Giannini ; ma né essi, né il sotto-comitato, all' uopo nominato, potettero smuo­vere la maggioranza dei cittadini, che non si decisero mai e poi mai a prendere una sì grave risoluzione, pur dandosi ad intendere che a Cosenza tale proclamazione fosse già un fatto compiuto, e che ad Ariano la rivolta stesse per trionfare, es­sendosi quivi fìnanco riesciti a distruggere il telegrafo, a impadronirsi dei cannoni della truppa regia, e a togliere al pro­caccio, per evitare che fosse andato a Napoli danaro, ben ven­timila ducati, depositati poi presso il vescovo di quella diocesi. L' avvocato Michele Ricca soffiava con tutta la forza dei suoi polmoni sul fuoco crepitante: si disse che altro fatto di sangue fosse avvenuto su per le vie di Napoli; che la guardia nazio­nale con i calabresi, radunati nella capitale per correre in Lombardia a combattere contro gli austriaci, avessero fatto vendetta degli svizzeri, e che in ogni parte della Capitanata si riunissero armati per dar braccio forte alla città di Foggia. Ma invano, ripeto, si tentò anche questa volta di sollevare il popolo, invano lo si tentò anche quel dì in cui si sorpresero in giro per le vie tre venditori ambulanti napoletani con un baule ricolmo di calzoni di tela, sì bianchi che grigi, tolti a Napoli il quindici maggio ai cadaveri dei soldati, e che cercavano di esitare a mite prezzo. Francesco Paolo Vitale, in qualità di vice-presidente del comitato, fece trascinare i tre ignoti innanzi al ff. giudice Antonio Sorrentini, e, seguito da centinaia di schiamazzatori, venne a pretendere egli stesso da quel funzionario che tutta la roba sequestrata fosse data alla folla per accenderne un rogo. Ma il giudice si denegò, e, fatto suggellare quel baule, mantenne in arresto i macabri spaccia­tori, evitando così una ridda infernale.
I liberali, però, che non aveano potuto ottenere, per ogni verso, la sperata sommossa in Foggia, si danno, di qui, con tutte le loro forze, ad alimentarla nei paesi della provincia. Ed ecco Carmine Durante, Scipione Cafarelli e Vincenzo Barbarisi, che si moltiplicano per far proseliti alla santa causa, or parlando a dritta ed a manca, or scrivendo lettere infuocate ai maggiorenti dei diversi paesi ; ecco Luigi de Noia che parte per Potenza allo scopo di prendere accordi con quei liberali ; ecco Orazio Sorge che fa alleanza con la Setta dei sette fratelli di Chieti ; ecco Agnello lacuzio che organizza la Bella Italia e stringe relazioni solidissime coi più ferventi rivolu­zionarii di Savignano. E ciò non è tutto ancora ; che, avendo il comitato urgente bisogno di danaro, da mandato a Fran­cesco Paolo Vitale di correre ad Ariano per intendersi con Vito Purcaro, che avea già sollevata quella cittadinanza, e che fu uno dei triumviri di quel governo provvisorio, condannato in seguito, prima a morte, e poi alla galera perpetua. Per lo che — quasi noi si crederebbe — ei riesce a sorprendere con altri la messaggiera postale e a toglierle di valigia ben seicento du­cati. Ma qui non si arresta costui, che, ritornando su i suoi passi verso Foggia in compagnia di giovani ardimentosi, fa sosta al santuario dell' Incoronata, e ottiene da quel rettore altra somma abbastanza rilevante. E di qui, passato a Cerignola, si armonizza perfettamente con quei capiparte e con la guardia nazionale. E da Foggia ei passa, senza prender re­spiro, nalla provincia di Bari allo scopo di collegarsi coi ri­voltosi di Basilicata e di Calabria ; e da qui in quel di Lecce con l'intento di eccitare le popolazioni e indurle all'atto estremo di farli marciare per Avellino su Napoli. E per ragione di tali energici e bollenti emissarii, si accendono focolari pericolosissimi nella stessa provincia di Capitanata. Quindi a Bovino si formano nuclei di armati ; a Roseto, di pieno accordo con Iacuzio e Purcaro, si stabilisce che chi mostri di possedere un fucile vada rimunerato con quattro carlini al giorno ; — e vi fu gente che, con grossi sacriflcii di borsa, riuscì a munirsi, ignorasi come e da chi, financo di tre cannoni. A Cerignola la guardia nazionale si addimostra ardimentosa a segno da giun­gere a disarmare le guardie di pubblica sicurezza, venute colà per serbare 1' ordine, e, impossessatisi dei loro fucili, spogliano dei valori la messaggiera postale, mentre ai soldati della riserva, di nuovo richiamati, vietano di partire. Così a Manfredonia, a Deliceto, a Lucera, a Sansevero, a Rodi, a Viesti uno solo è il motto d'ordine : « Alle armi per salvare la Costituzione ». La dieta di Potenza, cui avevano preso parte anche i rappresentanti della provincia di Foggia, pubblicava, il 25 giugno '48, il suo atto famoso, che venne chiamato col nome di Memorandum delle provincie confederate di Basilicata, Terra d' Otranto, Bari, Capitanata e Molise, e inondò di esso, con migliaia di esemplari, ogni angolo del regno. Ma anche dopo la pubblicazione di questo Memorandum, con la relativa inondazione, anche dopo quel ribollimento infernale che il co­mitato centrale di Foggia era riuscito a suscitare fin nelle più meschine borgate, non si potette quivi raggiungere, come dissi, la finalità della proclamazione di un governo provvisorio.
Se Foggia, però, rimaneva immutabile ed immutata rispetto all' ordine pubblico, uno dei suoi figli, Giuseppe Ricciardi, corse a sollevare le Calabrie. E questa pagina gloriosa del nostro concittadino, che onora la città che gli dava i natali, è bene accennarla di volo per chi l’ abbia per avventura ad ignorarla.
Giuseppe Ricciardi, dunque, rifugiatosi dopo il quindici di maggio con Giovanni La Cecilia, il promotore delle barri­cate napoletane, nonché con i più accesi su d' una nave fran­cese, e sbarcato a Malta, compì l’ audace disegno di attuare la protesta firmata dai deputati innanzi di abbandonare l'aula di Monteoliveto, di congregarsi cioè in un luogo sicuro, donde far valere i dritti della nazione, sì miseramente conculcati. Sul   Giglio   delle   onde   piombò a Messina,   ove prese accordi col Piraino; scese, poco dopo, a Villa S. Giovanni, e con Mileto, Romeo. De Riso, Plutino e Torricelli rivoluziono le Calabrie; quindi firmò a Cosenza il famoso manifesto, col quale, proclamando di essersi spezzato ogni vincolo fra prin­cipe e popolo, chiamava i cittadini alle armi. Novello Fabrizio Ruffo, inalberando, in nome della libertà, il labaro tricolore, come quegli nel novantanove, in nome del dispotismo, aveva innalzato il vessillo della Santafede, reggimento un pugno di uomini, e, ingrossandolo per via, intendeva rovesciare su Napoli una valanga di armati alla riscossa. E per lui pervenne la spedizione dei siciliani in Calabria sotto il comando del Ribotti, di quel generale che, in verità, come bene osservavasi, se avesse avuto il genio ed il fascino di Giuseppe Garibaldi, avrebbe senz'altro, dodici anni prima, detronizzato il Borbone. Che se la rivoluzione delle Calabrie non trascinò ciecamente le moltitudini per mancanza di duci. si dovette però riconoscere che il Ricciardi, « liberale entusiasta, facile a far discorsi ed a favoleggiare imprese, non poteva rendere alla libertà, com’egli credeva, il servizio che il cardinale Fabrizio Ruffo avea reso alla Santafede, perché a lui mancava la potenza dell'uomo fattivo e l'autorità che sulle turbe ignoranti aveva un porpo­rato di Santa Chiesa (1) ».
Giuseppe Ricciardi, perciò, accolto a Cosenza e a Catanzaro con musiche e bandiere, a mò di un salvatore, nel dì del1' osanna, con la stessa facilità venne rinnegato peggio che un demagogo nel dì del crucifige.

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