FUGGI DA FOGGIA NON PER FOGGIA MA PER I FOGGIANI ...

martedì 21 settembre 2010

CAPITOLO V

Prorogatasi la riapertura del Parlamento al primo di lu­glio, s'indissero dal Ministero, con decreto del ventiquattro maggio, le nuove elezioni pel quindici di giugno. Il ministro Bozzelli, il quale era divenuto, come avea già profetizzato lo stesso Ferdinando II, docile ed efficace strumento di scellerata reazione, o, secondo altri disse, « apostata e traditore », mandò una circolare riservata agl'intendenti, raccomandando loro di usare abilmente ogni mezzo affinchè fossero prescelti uomini ligi al Borbone, di rancido stampo e fin di poca levatura in­tellettuale. Ecco un brano di questa circolare: « A tal riguardo io non metto norma veruna alle possibili operazioni di Lei, anzi tanto più liberamente le do questa gelosa missione, quanto maggiormente Ella ne sarà responsabile del risultamento in­nanzi alla sua coscienza ed innanzi al governo. Solo bramerei che si usassero, per quanto è possibile, i mezzi indiretti ossia non ufficiali, come ad esempio appellarsene alla religiosità dei vescovi e delle parrocchie, alle intenzioni conservatrici dei più retti ed influenti cittadini, a far valere col vivo della sua voce la forza dei ragionamenti ».

(1) Niccola Niseo, Ferdinando II ed il suo regno, — Napoli, A. Morano. 1884.

Questa circolare inconsulta del Bozzelli provocò una fiera protesta, come una scudisciata, da Marìano d'Ayala, intendente di Aquila, protesta che io ebbi, fra pochi privilegiati, la inspe­rata ventura di leggere in un foglio volante tra altri documenti storici del Risorgimento, e che, come primizia, voglio in parte qui riprodurre:
« Non è nuovo tra noi questo linguaggio — esclamava l'o­nesto ed intrepido funzionario. — Noi ben riconosciamo di esso l'autore di una politica che fu la cagion prima dei nostri mali, perocché essa servì a ingenerare nell' animo dei buoni il so­spetto che lo Statuto non fosse una spiattellata menzogna, le nostre franchigie una falsità, la nostra rigenerazione una fantasmagoria politica. Il fatto in contraddizione del pensiero, il pensiero in contraddizione dei fatti: ecco il programma di un go­verno che, non potendo essere né razionale, né morale, né forte, fu sempre ipocrita e corruttore. A quali conseguenze non fummo noi tratti ? E quanti mali non avemmo da piangere "? Per troppo amore di libertà noi strozzammo con le nostre mani medesime la conquista del sangue nostro; e chi ebbe provocato il misfatto si beffò della nostra innocenza. Egli si credè per poco padrone del campo, signore della vittoria , ma non consultò bene la sua coscienza. Se ciò avesse fatto, avrebbe compreso che il trionfo della forza sopra quello dell'opinione è passaggiero, e che nel consentimento dei popoli sta la sicu­rezza dei governi costituzionali. Or che viene egli a susurrarci all'orecchio il Ministero?! ». Quindi, dopo un periodo quasi illegibile a causa della carta, rosa da una tignuola, e dove si accennava ai già eletti deputati, difensori e veri rappresentanti di coloro che spargevano lagrime su' loro dritti conculcati, il d'Ayala continuava: « Sono questi, questi sono i faziosi che entrarono nella Camera, e questi stessi faranno parte delle altre mille legislature, se altrettante ne vorrà il capriccio e l'arbitrio di chi comanda. Or dunque faccia senno una volta il Ministero, e men che all'indole passionata degli uomini, guardi alla natura dei suoi atti. Sta in lui calmare gli animi, rimuo­vere i sospetti, allontanare dal nostro suolo altre scene di sangue, e, per far ciò, è necessario dimenticare il passato. Allontani da sé questa politica subdola e vacillante, allontani la minaccia; la forza delle opinioni è ormai troppo prepotente perché possa essere superata da quella delle armi. Così facendo, potrà un amministratore far fecondare quei germi che sono più acconci allo sviluppo delle nostre franchigie, diversamente ei non sarà mai, né io certo con altri, il carnefice delle nostre istituzioni ».
 A Foggia, però, questa seconda elezione, che i liberali chia­marono illegale, perché i fatti del quindici maggio non auto­rizzavano a sciogliere la Camera, non potette aver luogo, sebbene il nuovo intendente Andrea Lombardi, natura oh quanto diversa dal d'Ayala, e fedele, quindi,fino allo scrupolo,alle istru­zioni ricevute dal Bozzelli, avesse fatto sin dal trentuno mag­gio, quando insediavasi al palazzo della dogana, il totum posse perché ciò andasse scongiurato. Ma il comitato centrale avea lavorato ovunque con accanimento febbrile affinchè gli elettori fossero stati assenti dai comizii nel giorno prefìsso, dovendo la loro assenza suonare solenne censura agli attuali metodi di governo. Coloro che percorsero per lungo e per largo la provincia intera a tale scopo, sfidando il furore dell' intendente, furono Ferdinando Cipri e Francesco Paolo Vitale, alla cui opera si aggiunse, da lontano, l'influenza di Luigi Zuppetta, il quale, con la sua parola scritta, riaccese vie più negli animi l'odio profondo contro il tiranno. Un proclama, infatti, assai tagliente fu rivolto agli elettori di tutta la Capitanata per indurre la maggioranza ad astenersi dal voto ; quale proclama, pubblicatosi la prima volta il tredici giugno a Castelnuovo, patria del Zuppetta, si vide, con la rapidità d'un baleno, ripro­dotto consecutivamente in tutt 'i paesi e nelle più umili bor­gate. Il proclama era questo: « Cittadini, la causa dell'indipen­denza e dalla libertà nazionale è caduta sotto i colpi della calunnia e delle baionette. Gli atti del governo del quindici del decorso mese improntano il marchio dell' aristocrazia e della diffidenza, che cerca spargersi anche tra voi. Sorgete pure dal letargo ! Non vi ha Costituzione ove non havvi guarentigia; e lo Statuto del dieci febbraio niuna ne concede. Astenetevi dal procedere a nuova elezione di deputati, e mostratevi ar­mati d'un coraggio civile, che spaventa gli stessi oppressori. Or se debbasi procedervi, non vi allontanate dalle primiere ele­zioni, poiché, se il governo è impegnato a distruggerle, è vostro interesse di consolidarle. Cittadini, siate uniti; ma la pru­enza non sia timore, sibbene armatevi di quello che assicuri il governo, l'Italia, l'Europa, che siate pronti a versare il vo­stro sangue, piuttosto che veder lesi i sacri dritti, che con tanto danno vorrebbonsi conculcare ».
 E, in seguito ad esso, come il razzo più forte nell'immenso crepitare di un fuoco pirotecnico,scoppiò la protesta che Saverio Barbarisi volle rivolgere, il quattordici di giugno, ai suoi elettori delle provincie di Capitanata e di Bari, e che, data la mo­derazione dei principii politici di lui, produsse tale un'impressione sulle moltitudini votanti da deciderle ad astenersi dal voto. Jn essa si leggeva fra l'altro: « Fece sorpresa il decreto del diciassette maggio, dopo che il giorno antecedente si era parlato di riunire le Camere. Se queste dovevano riunirsi il giorno quindici, e se i deputati il giorno quattordici si erano riuniti per le operazioni preparatorie, ed il giorno quindici erano pronti per l'apertura delle Camere, che non si aprirono per la nota vicenda (senza entrare nell'esame della mano che la produsse), come il diciassette il Ministero Cariati, sulla proposta del ministro dell' interno, potè dire che la Camera dei deputati si era costituita, e perciò si scioglieva ? Il re ha la prerogativa di sciogliere la Camera dei deputati; ma la Camera dev'essere costituita per poter essere sciolta. E se nel quattordici e quindici maggio le Camere non erano costituite, e non si costituirono perché il re non ne fece l'apertura, come si sciolse una Camera non Camera ? Le Camere costituite sono nel fatto della legalità; e sciogliere una Camera non esistente manifesta una illegalità tale da non potere imporre neppure ai più attaccati al sistema assolutista. Si è voluto così annul­lare le elezioni e non sciogliere ciò che non era neppure ligato. Si sarebbe potuto soffrire un abuso così dispiacevole, così con tro il senso logico ? Ma è orroroso poi e fecondo di tristi con­seguenze il decreto del ventiquattro maggio. Chi potea distrug­gere il programma del tre aprile ed il decreto del cinque detto mese ? Se, sulle premure nazionali per lo progresso, il Mini­stero Troya ci diede il programma del tre aprile firmato dal re, e poi il decreto del cinque detto mese, poteva il Ministero Cariati togliere alla nazione napoletana l'ottenuto decreto elet­torale ? No, perché i governi sono per le nazioni ; e quando una nazione ha voluto un bene, e, se le è dato, toglierlo è lo stesso che dire che il governo può a piacere dare ciò che vuole, togliere ciò che non gli piace dopo averlo dato. Ciò importa, nei tempi attuali, diffidenza immensa tra il potere e il popolo; ciò importa, Ministero Cariati, che la sola forza regola noi del regno di Napoli, o il principio di un solo, che, per sostenere l'opera sua, calpesta tutte le regole sociali e il benessere del regno di Napoli ! 11 Ministero Cariati ha dato prova di tanti errori e di tanta soperchieria che si ricorderà della sua esistenza, come si terrà presente 1' orrore che in tutti è per 1' avvenuto del quindici maggio ecc. Come cittadino del regno di Napoli io solen­nemente protesto, come protesto, qual deputato eletto dalle provincie di Capitanata e di Terra di Otranto, contro lo stato di assedio, che abbiamo sofferto dal sedici maggio al quattordici giugno; contro i decreti del diciassette e ventiquattro maggio e dell' otto giugno; contro le elezioni, che si fanno ; contro i decreti anticostituzionali, che sono nulli e improduttivi di effetti legali; e contro il Ministero, responsabile a suo tempo e luogo, e a carico del quale saranno prodotte le accuse che si convengono ecc. Non sono fuggito da Napoli, perché mi sono creduto e mi credo ancora deputato, e i deputati sono inviolabili ».
 Convocati a Foggia i comizii nella sala del così detto pa­diglione di s. Domenico, cioè nell'antico refettorio monastico, ivi si condusse, il quindici di giugno, il sindaco marchese Luigi de Luca, qual presidente provvisorio, ed i decurioni, se­gretarii anch'essi provvisorii, signori Vincenzo Celentano. Fran­cesco Paolo Modula. Domenico de Angelis, rimanendo assente il solo Giovanni Battista Postiglione, e s insediarono di buon'ora per procedere alla votazione. Di settecento elettori non si pre­sentarono che appena centoventi, i quali si rifiutarono di vo­tare, ma altamente protestarono contro l'illegale procedimento, non essendo il caso di nominare altra Giunta definitiva, né di  eleggere nuovi deputati, perché quelli che vi erano non potevano considerarsi destituiti del mandato, mercé un atto di vigliacca sopraffazione. Fatta tale protesta, tutti si ritirarono; sicché il seggio, naturalmente, dopo un verbale negativo, si sciolse. E le notizie, che man mano giungevano dagli altri Comuni, rinsaldavano altresì le previsioni, cioè che la maggioranza dell'intera nostra provincia, come delle altre, non volesse sapere di nuove elezioni, e che queste fossero avvenute in po­chi, pochissimi circondarii. Sicché quando il primo di luglio si riapriva in Napoli il Parlamento in una sala del r. Museo di antichità e di belle arti, non si videro dei deputati per la Capitanata che i soli Ferdinando de Luca, Giuseppe Libetta e Sa-verio Barbarisi, anche rappresentante di Bari, assistere, con la conscienza del proprio diritto, al famoso discorso della Corona, impappolato d'i pocrisia dal Bozzelli e letto dal duca di Serracapriola, all'uopo delegato ; discorso in cui, con impudenza unica anzi che rara, chiamavasi Iddio a giudice della purità delle intenzioni del re, e, a testimoni, il popolo e la storia.
 Furono indette, quindi, per la Capitanata le elezioni suppletorie-completive ; e mentre, dati gli sforzi disperati dell'intendente e del sotto intendente, riuscirono eletti, pel di­stretto di Bovino, Domenico Varo di Troia e Antonio Paolella di Castelluccio Valmaggiore, due ricchi e pacifici proprietarii locali, dei quali il primo si ebbe dappoi, sotto il governo ita­liano, 1' onore del laticlavio, a Foggia, con un combattimento titanico contro le malefiche arti poliziesche e reazionarie, si volle dare, come sfida al governo, un nuovo attestato di stima e di affetto a Luigi Zuppetta. Il suo completo trionfo fece mordere pur troppo le mani ai soccuinbenti, che trovarono oh quanto magro conforto in palinodie senza sugo, osandosi di scrivere fra l'altro, su fogliacci da pizzicagnolo, queste testuali parole : « Sempre più vedesi apertamente come 1' opera degli onesti liberali si frange nelle opere subdole dei maligni, tanto che si abbia una sproporzione numerica tra quelli e questi, per la ragione che 1' uomo dabbene vuoi A'ivere tranquillo e non compromettersi in faccia agli ardimentosi proletarii, che niente arrischiano ».

Anche questa volta la Camera andò in dileguo : per lo che, in seguito, sparì del pari ogni promessa, ogni illusione ed ogni speranza di liberi instituti, addirittura seppellendosi nel nulla

la Costituzione. E la pippionata bozzelliana, fattasi recitare dal re nel primo di luglio per bocca del Donnorso, potrebbe costituire da sé il testamento politico di colui che si compiacque farla da becchino, e che i suoi contemporanei ben bollarono a sangue, chiamandolo un dottrinario senza principii e senza fede.
A Foggia l'intendente, rianimatosi in vista della più sfacciata reazione, trionfante nella capitale, nonché di molta truppa che tornava dalla Lombardia, tra cui cinquecento lancieri e cin­quecento dragoni, che popolarono diversi quartieri della città, tentò di metter mano anch' egli alle tanaglie, cominciando ad iniziare dappertutto una lenta e progressiva repressione. E premette il pugno dapprima su coloro che soltanto per timore erano stati attratti nell' orbita rivoluzionaria e li riattaccò fedeli alla Casa Borbone ; poscia cercò fare il viso arcigno contro quelli che, non per convinzione, ma per facile adattamento al nuovo ordine di cose lo avevano accettato, e li mise in una condizione che chiameremo di glaciale indifferentismo. Solo restò vigile a tener d' occhio i liberali convinti, che non di­sertarono dal loro posto di combattimento, e aspettava l’ oc­casione propizia per dar loro addosso e sconvolgerli per sempre.
Ma se le intimidazioni locali, da una parte, e le notizie di repressione, dall' altra, fino in quelle terre dove la rivolu­zione pareva avesse dovuto assurgere alle più grandi propor­zioni, come nelle Calabrie, incominciarono a disgregare le or­ganizzazioni esistenti in Capitanata e a rendere deserti i sotto­comitati di tutta la provincia, pure il comitato centrale foggiano, con tenacia lodevolissima, si riunì di nuovo e deliberò doversi dar luogo, con l'intervento dei deputati, ad una dieta in Foggia, di cui nominava a presidente Tommaso Tonti. Eppure, oltre ai componenti il comitato, si contavano tuttora nella nostra città uomini, che certo non rinunziavano per paura alle loro idee ed ai loro convincimenti, uomini che, disdegnando ogni bavaglio, usavano, come prima, della libertà di parola, e non si ritraevano dal rischiare persino delle serie compromissioni. Non ebbero quindi un momento di trepidazione e Francesco Paolo Tarantino e Ferdinando Cipri e Luigi de Noia, quando, centuplicandosi, andarono in giro per riunire soccorsi in prò dei Cosentini, di cui un'ultima e pallida schiera si dibatteva ancora in una specie di agonia, contrastando al tiranno il di­ritto di riconquistarli come sua preda. Rischiando essi le ma­nette, riuscirono a riunire grosse somme per porrre in grado coloro, che consideravano come fratelli, di resistere tuttavia alle armi regie e di possibilmente vincerle. Né a loro si mostrò secondo per coraggio, chiamato, invece, dalle anime tapine, au­dacia e temerità, quel p. Borsari delle scuole pie, il quale, il giorno venti di agosto, dal pergamo della chiesa cattedrale, anziché inneggiare alle glorie di Maria, in onore di cui volle la guardia nazionale celebrare una festa, scivolò con arte a parlare della Costituzione, della libertà, della indipendenza ita­liana , facendo un quadro vivissimo e doloroso delle attuali condizioni del regno. Il popolo, che ne rimase sorpreso e in­sieme allettato,cominciò a mettersi in fermento; ma il Fuccilo, che di nuovo fungeva da intendente, perché il Lombardi era stato messo a riposo, e, con lui, il comandante della provincia, colonnello d' Afflitto, entrambi presenti in chiesa, profittando di un intervallo, in cui quegli sostava per riposarsi, ordinarono che continuasse la messa; al che il celebrante can.co Capuano, come un navilio distrigato da una secca, riprese l'in­terrotto cammino a gonfie vele, intuonando a voce alta il Credo, cui tenne dietro 1' orchestra con le sue note clamorose. Così il Borsari fu necessariamente costretto a lasciare il per­gamo, e la sera... a lasciar Foggia.
Né tacquero i liberali foggiani, quando, con sfacciatezza temeraria e folle, sfidandosi la pubblica opinione, si fece tor­nare a Foggia quel Tibì, che n'era stato pocanzi scacciato per volere di popolo. Venne perciò affìsso un proclama, col quale lo si minacciò di contrastargli ad ogni costo il passo sulle scale dell' intendenza quante volte ei si fosse colà presentato per ri­salirle. E allorché, il diciotto di luglio, con 1" arrivo di altri cinquecento uomini del 1° reggimento de" dragoni, Foggia sem­brava una vera piazza d'armi, e il Tibi ripigliò il suo posto in barba ai protestanti, ridotti al silenzio, un traino, carico di fuochi pirotecnici, destinato a Troia per l'occasione della festa di quei santi protettori, passando pel largo Portareale, venne incendiato, e, all'esplosione improvvisa, che si avvertì fin nei lontani sobborghi, uno spavento indicibile invase la cittadi­nanza, la quale, non sapendo che cosa fosse avvenuto, andò tremante a rifugiarsi tra le pareti domestiche. La guardia nazionale e la truppa furono sossopra, mentre la polizia procedette a parecchi arresti, sospettando "che l'incendio fosse stato doloso e prodotto con mozziconi di sigari accesi, gittati sul traino per provocare un allarme.
E quando il governo, per disarmare i cittadini, cominciò a a disciogliere man mano le milizie nazionali del regno, a Foggia non si restò impassibili innanzi a un fatto sì grave, che, mentre toglieva al popolo ogni suprema garentia dei suoi diritti, oltrag­giava la guardia nazionale locale, la quale avea resi, fino allora, segnalati servigi all' ordine pubblico. Nella generale esaspera­zione, come consueta valvola di sfogo, fu affìsso a Portareale, sull'angolo del palazzo Filiasi, questo novello proclama, che per la sua forma assai pedestre,non seppe indovinarsi da chi dettato: « A voi cittadini del medio e basso ceto, che sino al dì di oggi siete stati calpestati dai probi del paese, un'altra trama questi hanno ad operare a danno vostro, ed è il disarmo della guardia nazionale. Ma voi tutti, buoni cittadini, ora tutto dovete soffrire, ma non il disarmamento, perché la vostra guardia nazionale non ha accusa alcuna ; e, se ciò verrà ordinato per le tante denuncie dei vostri galantuomini, allora mi vedrete il primo, armato come s. Giorgio, farne vendetta qui in mezzo; e credo che rinverrò subito dei veri amici, promettendovi che non combatterò contro la forza qui residente, ma contro i tiranni ed oppressori cittadini, che distrugger vogliono la libertà indivi­duale e ritornare al dispotismo, nonché opprimere tutti noi. Ri­solvetevi perciò ; siate uniti e forti. Io sono l’amico di tutt' i veri amici ». E fu allora che Ferdinando Cipri, vedendo nell’ abolizione della milizia nazionale e del ripristino di quella urbana un volere ridurre all' impotenza i cittadini, s'arrischiò, con raro coraggio, di togliere le armi alla truppa per darle al popolo; il che gli fruttò perquisizioni domiciliari, vessazioni implacabili, ostinate, e, più tardi, fin la carcere.
Ma erano codesti gli ultimi sprazzi e gli estremi bagliori di una fiamma condannata a spegnersi, che l'intendente, con un' ipocrisia autorizzata dal governo, preparava anche in Fog­gia, senza violenze palesi, 1' ora della più completa reazione. E il dì, in cui, con l'avvento di Gaetano Peccheneda, di Orazio Mazza e di Raffaele Longobardi, s'iniziò in Napoli l'era dello spionaggio più esoso e delle persecuzioni più infeste e tiranniche, che scossero dalle fondamenta il reame delle due Sicilie, potendosi così storicamente affermare che il 7 settembre 1848, data di quell'avvento, abbia generato il 7 settembre 1860, l'intendente di Capitanata potè avere il vanto anch'egli di mo­strarsi degno di quella triade ignominiosa che veniva ad inau­gurare il governo del terrore, essendo riuscito in Foggia a sgominare le schiere dei liberali e a ricondurre la provincia intera in uno stato dì obbedienza passiva alla volontà del Borbone. In una relazione, infatti, mandata al Ministero intorno alle condizioni della provincia, egli asserì con soddisfazione che la Costituzione, concessa per un momento dal re, era stata ivi nei primi istanti accolta con compiacimento, ma avea però suscitate pretensioni immense ed abusi senza limiti, mercé mene occulte di stranieri, in gente dissennata e senza cuore, che, sotto mendaci parvenze di liberalismo e di patriottismo, avea tentato di minare le istituzioni monarchiche, sperando di trarre partito per sé dal disordine pubblico. Che codesti male inten­zionati erano di già tutti ben conosciuti da lui, non rimasto certo tra' dormienti, e che non cessava d'invigilare per poterli, all'occasione, assicurare alla giustizia punitrice, come avea fatto per taluni, la cui compromissione potea dirsi già un fatto reale e completo.
Così bassamente, dunque, il ff. intendente   Fuccilo accre­ditava la sua livrea presso i nuovi padroni.

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